Autore Franco Gavio
Nelle due concise paginette susseguenti alla mia breve introduzione si rileva che una consistente parte del Labour britannico esplicita la sua cristallina avversità nei confronti di una siffatta Unione Europea a trazione tedesca.
Sinceramente, non mi sorprese più di tanto il risultato del referendum che autorizzò il governo a procedere per la Brexit [1], poiché, a differenza di coloro che stilano i loro report entro il perimetro della “bolla” di Knightsbridge o di Hampstead (Londra), ho appreso e anche conosciuto i problemi sociali che affliggono alcune realtà post industriali come quelle di Wigan e di Coventry.
Concordo quasi del tutto sulle considerazioni, non certo ottimistiche, presenti nell’articolo.
Detto ciò, dal momento che il 2017 sarà l’anno cruciale per la tenuta della moneta unica, forse della stessa UE, queste valutazioni vanno prese in seria considerazione. Nei prossimi dodici mesi vi saranno importanti e decisive elezioni in due Stati guida dell’Eurozona: in Francia (primavera), in Germania (autunno).
Finora i mercati sono stati anestetizzati dalla politica espansiva monetaria non convenzionale di Draghi, ma dal prossimo ottobre questa cesserà e nessuno oggidì si azzarda nel prevedere che cosa accadrà al di là di quella data.
Invece, ciò che sicuramente non si estinguerà sarà il saldo positivo delle partite correnti tedesche che contrasterà con il probabile deficit di quelle degli Stati mediterranei.
Per chi possiede una larvata conoscenza del meccanismo che connette la differenza tra un surplus di bilancio di uno Stato e un deficit di un altro (partite correnti = saldo dei movimenti di capitale, detto in un altro modo “vincolo estero”) in un regime a cambi fissi, non potrà certo dormire sonni tranquilli riguardo la permanenza del secondo nella stessa area valutaria. Tuttavia, leggendo molti post sulla “vexata quaestio” europea, non noto che gli autori mostrino una grande preoccupazione per questa “tecnica” discrepanza.
Molti, la ritengono un’annotazione “secondaria”, tuttalpiù un elemento di carattere settoriale, essendo così entusiasticamente intenti a celebrare la loro retorica europeista. Peccato, che i tedeschi, da imperituri “specialisti”, la pensino in modo completamente opposto. Per il momento mi limito a rilevare tale “ancellare” argomento, semmai, esso potrà essere oggetto di dibattito una prossima volta, ammesso che vi sia “una prossima volta”.
Leader: The unresolved Eurozone crisis
The continent that once aspired to be a rival superpower to the US is now a byword for decline, and ethnic nationalism and right-wing populism are thriving. – BY NEW STATESMAN
La crisi della zona euro non è stata mai risolta, ma semplicemente comodamente dimenticata. Il voto per la Brexit, la terribile guerra in Siria e l’elezione di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti, ha distratto tutti quanti dalle difficoltà della moneta unica. Eppure, le sue contraddizioni persistono come una minaccia permanente sulla stabilità dell’Europa continentale e sul futuro della coesione nell’Unione europea.
Le dimissioni del primo ministro italiano Matteo Renzi, in seguito alla sconfitta in un referendum costituzionale il 4 dicembre, sono state il momento in cui alcuni credevano che l’Europa sarebbe stata travolta. Tra i campioni della campagna per il No vi erano il Movimento anti-euro dei Cinque Stelle (in cima in alcuni recenti sondaggi) e i separatisti della Lega Nord. Gli oppositori della UE, come ad esempio Nigel Farage, hanno salutato il risultato come un rifiuto della moneta unica.
Un’uscita italiana, se non impensabile, è tutt’altro che inevitabile, tuttavia la coalizione del NO era composta non solo euroscettici ma anche da europeisti come l’ex primo ministro Mario Monti e una parte del Partito Democratico (liberale di centro) del signor Renzi. Pochi elettori hanno considerato il referendum come un giudizio sulla unione monetaria.
Per ottenere l’uscita dell’Italia dall’euro, il populista Movimento Cinque Stelle necessiterebbe prima di tutto formare un governo (non è un compito facile in Italia con il complesso sistema multipartitico), e [secondariamente] modificare la costituzione per permettere una votazione pubblica sull’adesione italiana verso la moneta unica. I sondaggi continuano a mostrare una maggioranza che si oppone al ritorno della lira.
Ma l’Europa deve affrontare pericoli ben più immediati.
Il fragile sistema bancario italiano è stato messo in pericolo dal risultato del referendum e dalla conseguente caduta della fiducia degli investitori. In assenza di aiuti di Stato, la Banca Monte dei Paschi di Siena, la più antica banca del mondo, potrebbe presto affrontare il fallimento. Il debito pubblico in Italia si attesta intorno al 132% del PIL, limitando fortemente la potenza di fuoco [del Governo], e il suo settore finanziario ha accumulato sofferenze per 360 miliardi di dollari. Il rischio è quello di una nuova crisi finanziaria che si diffonda in tutta la zona euro.
Finora le testimonianze dei leader UE non incoraggiano l’ottimismo. Sette anni dopo l’inizio della crisi greca, il governo tedesco sta continuando a sostenere il fallimentare percorso dell’austerità. Il 4 dicembre, il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha dichiarato che la Grecia deve scegliere tra impopolari “riforme strutturali” (un eufemismo che richiama l’austerità) o in alternativa l’uscita dalla moneta unica. Egli ha insistito sul fatto che la riduzione del debito “non aiuterebbe” i paesi impoveriti.
Senonché, l’argomento che l’austerità non sia sostenibile è ormai un tema molto condiviso al di là del governo Syriza. Il Fondo Monetario Internazionale è tra quelli che hanno chiesto la cancellazione “incondizionata” del debito. Secondo i termini del salvataggio in corso, il pagamento degli interessi della Grecia sul proprio debito (circa € 330 miliardi) continuerà a crescere, consumando il 60% del suo bilancio entro il 2060. Il FMI ha giustamente proposto un’estensione del periodo di rimborso e un tasso di interesse fisso del 1,5%. Di fronte all’intransigenza tedesca, il FMI si rifiuta di fornire ulteriori finanziamenti.
Da quando il Presidente della BCE, Mario Draghi, dichiarò nel 2012 che era disposto a fare “tutto il necessario” per preservare la moneta unica, gli Stati membri della UE hanno fatto affidamento sulla politica monetaria per contenere la crisi. Questo approccio compiacente potrebbe sfilacciarsi. Sin dalla nascita dell’euro, gli economisti avvertirono sui pericoli di una unione monetaria non accompagnata da un’unione fiscale e politica. Il Regno Unito, anche per queste ragioni, saggiamente rifiutò l’adesione, ma gli altri membri vennero condannati alla stagnazione. Come scrive Felix Martin, “L’Italia oggi è in una condizione peggiore di quella che non fu solo nel 2007, ma addirittura nel 1997. La produzione nazionale pro capite è rimasta ferma per 20 anni: una sorprendente. . . statistica “.
Il rifiuto della Germania di sostenere la domanda (avendo beneficiato di un tasso di cambio fisso) ha minato i principi di solidarietà europea e l’obiettivo di una prosperità condivisa. La disoccupazione tedesca è scesa al 4,1%, il livello più basso dal 1981, ma questa è al 23,4% in Grecia, il 19% in Spagna e 11,6% in Italia. I più giovani sono quelli che hanno sofferto di più. La disoccupazione giovanile è al 46,5% in Grecia, 42,6% in Spagna e 36,4% in Italia. Nessun modello sociale tollererebbe un tale disastro.
“Se l’euro fallisce, fallisce l’Europa“, ha spesso affermato la Cancelliera tedesca, Angela Merkel. Eppure, non ne consegue che l’Europa avrà successo se l’euro sopravvive. Il continente che, una volta aspirava ad essere una superpotenza rivale per gli Stati Uniti è ora sinonimo di declino, in cui sono fiorenti il nazionalismo etnico e il populismo di destra. In queste circostanze, la sorpresa è stata non tanto le intemperanze degli elettori, quanto la loro pazienza.
[1] https://democraticieriformisti.wordpress.com/2016/06/01/brexit-siamo-sicuri-che-non-accada/
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