(di Lafayette)-
Per chi volesse dedicare una decina di minuti alle scienze economiche, questa lecture di Amartya Sen, pubblicata dal settimanale britannico New Statesman, invita a fare una seria riflessione sia sul modo con cui le politiche economiche vengono messe in atto e sia su come esse vengono giustificate dalle leadership dominanti. Il Premio Nobel per l’Economia nel 1998, sebbene nel suo scritto mostri dispregio nei confronti del concetto d’austerità, ne travalica la ricorrente critica mettendo al centro del dibattito intellettuale forse il vero nocciolo epistemologico del pensiero keynesiano, secondo cui le scelte economiche devono essere in funzione del bene collettivo e non viceversa. Stando al pensiero dell’economista d’origine indiana, le leadership politiche democraticamente elette non si devono arrogare il diritto di possedere il monopolio della conoscenza (austerità), bensì porsi al servizio della volontà popolare fornendo ad essa quegli elementi di chiarezza e di trasparenza attraverso cui sia possibile pervenire a una scelta condivisa delle politiche economiche da applicare. Non aggiungo altro sarebbe del tutto ridondante.
The judgements of our financial and political leaders are breathtakingly narrow. Nobel Prize-winning economist Amartya Sen considers the alternatives.
Il 5 giugno 1919, John Maynard Keynes scrisse al primo ministro della Gran Bretagna, David Lloyd George, “Le rendo noto che sabato mi defilerò da questa scena da incubo. Qui, non posso più essere utile“. Così finì il ruolo di Keynes come rappresentante ufficiale del Tesoro britannico alla Conferenza di pace di Parigi. Keynes si liberò dall’essere complice del trattato di Versailles (firmato il mese successivo), che detestava.
Perché Keynes ebbe così in antipatia un trattato che pose termine lo stato di guerra tra la Germania e le potenze alleate (sicuramente una buona cosa)?
Ovviamente, Keynes non stava lamentandosi per la fine della guerra mondiale, né sulla necessità di un trattato per concluderla, ma sui termini di questo – e, in particolare, sulla sofferenza e sulla crisi economica imposta nei confronti del nemico sconfitto, i tedeschi, attraverso l’imposizione dell’austerità. L’austerità è un argomento di notevole attuale interesse in Europa – vorrei aggiungere la parola – “purtroppo” da qualche parte nella mia frase. In realtà, il libro che scrisse Keynes biasimando il trattato, “The Economic Consequences of the Peace”, illustrava concretamente le conseguenze economiche di “un’austerità imposta“. La Germania aveva già perso la guerra, e l’accordo di pace riguardava su come il nemico sconfitto avrebbe dovuto attenersi, e all’interno di questo su quanto i tedeschi avrebbero dovuto pagare ai vincitori. I termini di questa pace cartaginese, come Keynes la considerò (ricordando il trattamento romano nei confronti della sconfitta Cartagine in seguito alle guerre puniche), che compendiava l’imposizione di un enorme e irrealistico onere per i danni di guerra, era un compito che la Germania non poteva mettere in pratica senza rovinare la sua economia. Poiché i termini ebbero anche l’effetto di favorire un’animosità tra i vincitori e vinti e, per di più non avrebbero portato economicamente nulla di buono per il resto d’Europa, Keynes non ebbe altro, eccetto il disprezzo per la decisione delle vittoriose quattro (Gran Bretagna, Francia, Italia e gli Stati Uniti), da chiedere alla Germania che fosse dannoso per i vinti e inutile per tutti.
La retorica morale dei nobili sentimenti espressa per una dura imposizione dell’austerità sulla Germania, da Keynes accusata, veniva soprattutto da Lord Cunliffe e Lord Sumner, che rappresentavano la Gran Bretagna alla Commissione delle Riparazioni e che Keynes amava chiamare “i Gemelli Celestiali“. Nella sua lettera di commiato indirizzata a Lloyd George, Keynes aggiunse, “Lascio i Gemelli a gongolare per la devastazione dell’Europa.” L’esagerata retorica sulla necessità d’imporre l’austerità, per rimuovere la scorrettezza economica e morale in Grecia e altrove, può venire più frequentemente in questi giorni da Berlino stessa, con il mutato ruolo della Germania nel mondo di oggi. Ma le conseguenze sfavorevoli, di cui Keynes temeva, sarebbero seguite da gravi – e nel suo giudizio insensate – imposizioni di austerità, le quali restano pertinenti ancora oggi (sebbene si svolgano nel quadro di una geografia diversa fra un ordinante moralmente retto e colui che trovandosi sulla cattiva strada deve essere disciplinato).
A parte il timore di Keynes concernente la rovina economica di un paese, ci riferiamo in questo caso alla Germania, [che avvenne] attraverso la programmazione spietata dei pagamenti richiesti, egli analizzò anche le conseguenze negative del collasso economico tedesco su altri paesi in Europa. La tesi dell’interdipendenza economica, che Keynes avrebbe sviluppato più ampiamente in seguito (anche nel suo libro più famoso, La Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, che sarà pubblicato nel 1936), fa la sua apparizione all’inizio di questa opera, nel suo riferimento critico al trattato di Versailles.
“Una inefficiente, priva di lavoro e disorganizzata Europa si trova di fronte a noi“, dice Keynes, “lacerata da lotte intestine, dall’odio internazionale, conflittuale, morente di fame, [pervasa dal] saccheggio, e dalla menzogna.” Se alcuni di questi problemi sono visibili oggi in Europa (come credo in qualche misura lo siano), dobbiamo chiederci: perché è così? Dopo tutto, il 2015, non è per nulla simile al 1919, ma perché quelle stesse parole, del tutto fuori contesto, appaiono come se, per almeno una parte, si adattassero al momento attuale?
Se l’austerità è controproducente come pensava Keynes, ci si chiede come è possibile che le forze politiche a suo supporto appaiono vincitrici nel confronto elettorale, almeno in Gran Bretagna? Infatti, ciò che c’è di vero nella motivazione del Financial Times, comunicata subito dopo la vittoria dei conservatori nelle elezioni generali, e proveniente da uno storico di prestigio, Niall Ferguson (il quale è un caro amico, la cui amicizia sembra prosperare sul nostro persistente disaccordo): “I labouristi dovrebbero incolpare Keynes per la loro sconfitta elettorale.“
Se il punto di vista che Ferguson esprime è fondamentalmente giusto (oltre al fatto che la sua lettura è condivisa da diversi altri commentatori), l’austerità imposta che stiamo attraversando non è un inutile incubo (come l’analisi di Keynes vorrebbe farci credere), bensì [si potrebbe intendere] più come un faticoso allenamento per un domani più radioso, in accordo con la tesi che hanno sempre sostenuto i fautori dell’austerità. Ed è, in questa prospettiva, un futuro, apprezzato da riconoscenti elettori, che sta cominciando a svilupparsi già nel nostro tempo, almeno in Gran Bretagna. Allo stato attuale è questa la vera storia? Più in generale, potrebbero “i Gemelli Celestiali” aver avuto ragione sin dal principio?
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Ci sono molte singolari peculiarità che caratterizzarono i fatti nel mondo dopo la crisi del 2008, a partire dagli Stati Uniti. Uno di queste è inerente a ciò che iniziò come un chiaro fallimento dell’economia di mercato (in particolare alimentato dal cattivo comportamento delle istituzioni finanziarie) che sull’immediato apparse come un problema del ruolo eccessivo dello Stato. La crisi, quando arrivò, fu vista – giustamente, credo – come un fallimento del funzionamento delle istituzioni finanziarie private. Ciò condusse a una forte domanda per ripristinare alcune delle regolamentazioni statali, in particolare quelle attinenti ai mercati finanziari, le quali furono gradualmente rimosse nell’economia degli Stati Uniti attraverso una loro progressiva eliminazione (a partire dalla presidenza Reagan, ma che continuò attraverso le amministrazioni democratiche). Tuttavia, dopo il massiccio declino nel 2008 dei mercati finanziari e della fiducia delle imprese che fu bloccata, e in parte invertita, attraverso l’intervento dello Stato, specificatamente mediante il varo [di provvedimenti] di stimolo all’economia, spesso pagati da un pesante indebitamento pubblico, lo Stato accumulò grandi debiti sul groppone. La richiesta di un governo più ridotto, che ebbe inizio nel passato, promossa da coloro che furono scettici riguardo a una estensione dei servizi pubblici e delle prestazioni dello Stato, ora si è tramutata in un coro chiassoso, con i leader politici in competizione tra di loro nel spaventare la gente con l’idea che l’economia non potrebbe fare altro che crollare sotto il peso del debito pubblico.
Allo stesso modo, a livello internazionale, la libera caduta globale in seguito alla crisi del 2008 venne in gran parte interrotta dall’iniziativa, sotto la guida visionaria di Gordon Brown, [che caldeggiò] una riunione dei governi del rinnovato G20 nel mese di aprile del 2009 a Londra. In cui ogni [partecipante] promise di fare quanto meglio per non alimentare la spirale verso il basso a causa di una propria complicità nazionale. Questo [impegno] si rivelò una pagina positiva nella storia della crisi, ma ben presto il corso cambiò, con la richiesta ai governi di togliersi di mezzo prima che essi rovinassero le salutari attività di business.
Per quanto riguarda la gestione dei debiti, improvvisamente l’idea di austerità come una via d’uscita per le economie depresse e fortemente indebitate divenne la priorità dominante dei leader finanziari europei. Quelli con un interesse nei riguardi della storia potrebbero facilmente vedere in questo un ricordo dei giorni della Grande Depressione del 1930, quando il taglio della spesa pubblica sembrava una soluzione, piuttosto che un problema. Questo fu, naturalmente, dove Keynes diede il suo contributo decisivo nel sua opera classico, “La Teoria Generale”, nel 1936. Keynes introdusse la comprensione di base che la domanda è importante come fattore determinante dell’attività economica, e che l’espansione, piuttosto che il taglio della spesa pubblica, potrebbe svolgere un lavoro di gran lunga migliore per lo sviluppo dell’occupazione e dell’attività in un’economia con capacità inutilizzata e carente di lavoro. L’austerità poteva contribuire ben poco, dal momento che una riduzione della spesa pubblica si aggiungeva alla inadeguatezza dei redditi privati e alle richieste del mercato, tendendo in tal modo a creare più disoccupazione. C’è, naturalmente di più nella integrale teoria di Keynes, ma la sintesi del senso comune, relativamente a quanto affermato, esprime un concetto già sufficiente.
Tuttavia, i leader [dei ministeri] finanziari europei diedero una lettura diversa – da Keynes e da un gran numero di economisti tradizionali – su ciò che fosse necessario, e [per di più] non erano intenzionati a muoversi dal loro modo di concepire le cose. Come è abbastanza usuale oggidì quello d’incolpare gli economisti per non riuscire a vedere il mondo reale, colgo l’occasione per notare che ben pochi di costoro, professionalmente preparati, sono stati persuasi dalla direzione in cui i responsabili delle finanze europee decisero di portare l’Europa. La debacle europea dimostrò, in effetti, che non è necessario essere degli economisti per generare un tale pasticcio: il settore finanziario è in grado di dare vita alla propria sanguinosa calamità con la massima eleganza e semplicità. Inoltre, se la politica basata sull’austerità affossò i problemi economici dell’Europa, essa fallì nell’obiettivo stabilito di ridurre in misura rilevante il rapporto tra debito e PIL: in realtà, accadde proprio il contrario. Se le cose iniziarono a cambiare, nel corso degli ultimi anni, anche se molto lentamente, è in ragione soprattutto del fatto che l’Europa ha avviato una politica di austerità fiscale ibrida un po’ indebolita mediante l’espansione monetaria. Se questo è un mezzo tentativo verso Keynes, i risultati sono altrettanto esitanti.
C’è, infatti, una quantità di prove nella storia del mondo che indica che il modo più efficace per tagliare il deficit è quello di resistere alla recessione e di combinare la riduzione del disavanzo con una rapida crescita economica. Gli enormi deficit dopo la seconda guerra mondiale vennero facilmente addomesticati con una rapida crescita economica negli anni del dopoguerra (Tornerò su questo punto più avanti). Qualcosa di simile accadde durante gli otto anni di presidenza di Bill Clinton negli Stati Uniti, quando egli trovatosi con un deficit enorme terminò [il suo mandato] azzerandolo, soprattutto grazie a una rapida crescita economica. Anche in questo caso, la riduzione del tanto lodato deficit del bilancio svedese durante 1994-1998 si verificò in un periodo di discreta rapida crescita del PIL. Nonostante le situazioni di stallo politico e un Congresso in gran parte non funzionale, in questa occasione, gli Stati Uniti sono stati molto più intelligenti dell’Europa nel fare uso di questo principio importante. Il rapporto tra deficit e PIL è diminuito negli Stati Uniti grazie alla crescita economica, che – piuttosto che l’austerità – è, di certo, il miglior modo per raggiungere il risultato desiderato.
Se i leader politici europei (adesi in modo particolare a una ristretta concezione delle priorità finanziarie) avessero permesso un dibattito pubblico allargato, piuttosto che prendere decisioni unilaterali negli appartati corridoi finanziari – che non sono propri per una discussione pubblica – si reputa possibile che gli errori politici avrebbero potuto essere evitati attraverso le procedure standard di deliberazione, controllo e critica. E’ degno di nota che ciò non sia avvenuto nel continente il quale ha dato al mondo le idee di base della democrazia istituzionale. Il grande fallimento epistemico nel tralasciare le lezioni del passato sulla rinascita, cioè sulla riduzione del disavanzo e sulla crescita economica, non è solo una questione di decisioni sbagliate assunte dai leader finanziari, compresa la Banca Centrale Europea, ma anche dell’attuale deficit democratico presente in Europa. Non è una consolazione che la maggior parte dei governi della zona euro, che si sono schierati per la strategia di austerità, abbiano perso la poltrona a causa delle successive elezioni. Il compito della democrazia dovrebbe essere quello di prevenire gli errori attraverso deliberazioni partecipative, piuttosto che quello di fare rotolare le teste dopo che sono stati commessi sbagli. Questo è uno dei motivi per cui John Stuart Mill vide la democrazia come il “governo attraverso la discussione” (una frase coniata da Walter Bagehot, che sussume il pensiero dei Millian [gli estimatori di Mill]), e questo richiede una discussione che preceda le decisioni pubbliche, piuttosto che il contrario.
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Come fu possibile, ci si deve chiedere, disperdere malamente le fondamentali intuizioni e le analisi keynesiane per realizzare delle politiche economiche europee che imponevano l’austerità? Alcune delle figure dominanti nel mondo finanziario hanno mantenuto uno scetticismo di lunga data nei confronti delle relazioni economiche su cui Keynes focalizzava [l’attenzione]. Costoro si stanno correggendo solo ora, con i test sulla realtà che si stanno facendo attraverso l’osservazione degli effetti negativi risultanti dalla trascuratezza delle relazioni keynesiane. Il piano coraggioso da parte del nuovo presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi – di cui riteniamo che ci siano tutte le ragioni per accogliere – [promosso] con lo scopo di fornire un trilione di euro di “quantitative easing” (non dissimile dall’operazione di espandere l’offerta di moneta) – con un risoluto effetto espansivo – è un risultato in favore di questo tardivo riconoscimento che sta lentamente cambiando la Banca Centrale Europea: ciò che l’economia abbisogna è l’espansione piuttosto che la contrazione.
Se non si riesce a capire alcune relazioni Keynesiane basilari, il tutto è parzialmente dovuto alla spiegazione di ciò che è successo. C’era anche un’altra e più sottile storia dietro la maledetta economia dell’austerità. C’era una strana confusione nel pensiero politico tra la reale necessità di riforme istituzionali in Europa e la immaginaria necessità per l’austerità, che sono due cose molto diverse. Non vi è alcun dubbio che l’Europa abbia bisogno, per un certo periodo di tempo, di molte serie riforme istituzionali: dalla riduzione dell’evasione fiscale e una correzione più sensata sia dell’età pensionabile sia delle ore di lavoro, fino all’eliminazione delle rigidità istituzionali, comprese quelle del mercato del lavoro. Ma la vera (e incisiva) causa riguardante la riforma istituzionale deve essere distinta dalla questione inerente l’austerità indiscriminata, che non fa nulla per cambiare un sistema ma infligge un dolore considerevole. Attraverso l’abbinamento delle due questioni, [si ebbe] come una sorta di composto chimico, da cui divenne molto difficile sostenere una riforma senza nello stesso tempo tagliare la spesa pubblica complessivamente. Ciò non ha contribuito per nulla alla causa della riforma.
Questo è un punto abbastanza semplice, ed è sorprendente quanto sia stato difficile comunicarlo. Devo confessare il mio umile fallimento, in quanto i miei tentativi [di convincimento] non hanno inciso sui responsabili politici in occasione dei confronti con la Commissione Europea, con il Fondo Monetario Internazionale, con la Banca dei Regolamenti Internazionali, e nelle riunioni congiunte della Banca Mondiale e dell’OCSE, a partire dall’estate del 2009.
Un’analogia può contribuire a rendere il punto più chiaro: è come se una persona che chiedesse un antibiotico per la febbre gli fosse data una medicina in cui l’antibiotico è mescolato insieme con il veleno per topi. In questo modo non si può ottenere l’antibiotico senza avere anche il secondo. In effetti, ci fu detto che se si vuole la riforma economica è necessario anche avviare, con essa, l’austerità economica, anche se non vi è assolutamente alcun motivo per cui le due questioni debbano essere messe insieme come un composto chimico. Ad esempio, istituire un’età da pensione ragionevole, che molti paesi europei non ancora provveduto a deliberare (una riforma istituzionale tanto necessaria), non è pari a tagliare pesantemente le pensioni su cui la vita dei lavoratori poveri può dipendere (uno dei [dogmi] preferiti degli austeritarians). La composizione delle due cose – non da ultimo nelle richieste fatte sulla Grecia – ha reso molto più difficile perseguire le riforme istituzionali. In base a ciò, la contrazione dell’economia greca sotto l’influenza principalmente dell’austerità ha creato le circostanze più sfavorevoli possibili per delle audaci riforme istituzionali.
Un’altra controproducente conseguenza della politica di un’austerità imposta e la disoccupazione che ne segue. Secondo l’opinione di Keynes, essa deriva dalla perdita di capacità produttiva – e nel corso del tempo anche dalla perdita di abilità – la cui causa è da ricercare nella continua disoccupazione giovanile. Attualmente, il suo tasso è sorprendentemente elevato in molti paesi europei; più della metà dei giovani in Grecia non hanno mai sperimentato [l’opportunità] d’avere un lavoro. Lo stesso processo di formazione delle capacità umane, su cui Adam Smith mise l’accento, come il vero motore del successo economico e del progresso umano, è stato gestito in modo pessimo “legando” insieme una non necessaria austerità (che nessun paese veramente abbisognava) con la necessaria riforma (fondamentale per molti paesi europei).
Più di 200 anni fa, Adam Smith specificò con molta chiarezza in “The Wealth of Nation” come giudicare il buon funzionamento di un’economia ben gestita. Una buona economia politica. Smith sostenne che questa deve avere “due compiti distinti“: “in primo luogo, quello di fornire un reddito abbondante o il minimo garantito per le persone, più propriamente per consentire loro di disporre un tale reddito o la sopravvivenza per se stessi; e in secondo luogo, di fornire allo Stato o alla comunità un reddito sufficiente per i pubblici servizi “.
Il padre dell’economia moderna, nonché il pionieristico campione del sistema di mercato, non ebbe alcun dubbio sul perché il ruolo dello Stato si debba inserire integralmente nelle esigenze di una buona società. Il pubblico sentimento, nel corso delle generazioni, ha sempre rivendicato e sostenuto l’ampia visione di Adam Smith. Ci sono buone ragioni per pensare che oggi si sarebbe fatto lo stesso se ci fosse stato un aperto e informato dialogo pubblico a cui fosse stato dato un’opportuna possibilità [di emergere], piuttosto che cassarlo in favore di una presunta superiorità di giudizio da parte dei leader finanziari, con la loro scioccante miopia nei riguardi della società umana e una fondamentale mancanza d’interesse per le esigenze di una democrazia deliberativa.
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E’ certamente vero che la politica di austerità è stata pubblicizzata come la giustificazione al ridosso del successo comparativo dell’economia britannica. Tuttavia, questo confronto viene fatto con l’Europa, che si trovava in condizioni più difficili della Gran Bretagna, e sulla quale vi è stata un’imposizione di rigore più vigorosa, in particolare su alcuni paesi (Grecia è naturalmente l’esempio estremo di tale [durezza] – da cui la grande contrazione della sua economia, anziché la sua rinascita). La crescita relativamente positiva degli ultimi anni in Gran Bretagna non è stata, nel periodo di austerità, particolarmente impressionante, se noi la confrontiamo con quelle al di là dei confini dell’Europa. Allo stato attuale, non solo il price-adjusted GDP (PIL) pro capite in Gran Bretagna è ancora inferiore a quello che era prima della crisi nel 2008, ma anche, nel periodo di recupero dal minimo del 2009. Il GDP (PIL) pro capite è aumentato molto più lentamente nel Regno Unito che negli Stati Uniti e in Giappone (per non parlare di alcune economie asiatiche ove la crescita è stata più rapida).
Potrebbero gli elettori inglesi, aver perso [l’opportunità] per capire il vero dato di fatto? Ciò è possibile, e attualmente me ne sono reso conto, tuttavia i risultati del voto non fanno palesare un’ondata di approvazione a favore dell’austerità. Non c’è dubbio che il Labour abbia avuto un grave sconfitta elettorale, avendo perso terreno, non solo in Scozia, e ciò lo deve indurre a ripensare le proprie priorità e strategie in modo radicale. Ma i partiti che formano il governo di coalizione – i conservatori e i liberaldemocratici – che ebbero il sostegno di oltre il 59 % dei voti totali nelle elezioni precedenti del 2010 (vale a dire, prima che sorgesse la sorpresa dell’austerità in Gran Bretagna); [oggi] gli stessi partiti della coalizione insieme sono riusciti a ottenere solo circa il 45 % nell’ultimo confronto elettorale dopo l’esperienza dell’austerità. Non si tratta proprio di un successo inebriante per il rapporto tra consenso e voto ottenuto dall’austerità. I Tories hanno conseguito una netta maggioranza dei seggi da soli (e hanno una buona ragione per festeggiare questo risultato), sebbene sia maturato con solo il 37 % dei voti. Il successo qui è proprio come quello del BJP Hindutva in India nelle elezioni dello scorso anno, quando pur ricevendo il 31 % dei voti espressi, conquistò una sostanziale maggioranza dei seggi parlamentari. Prima d’iniziare a pronunciarci sulle nostre teorie economiche dalla lettura dei risultati elettorali, dobbiamo esaminare più attentamente il messaggio risultante attraverso i voti e i seggi nei sistemi elettorali, che nel Regno Unito e, a seguito di questo, in India sono correnti.
Non c’è in dubbio, però, è che l’0pinione pubblica nel Regno Unito, successivamente alla crisi del 2008, è diventata sempre più nervosa per la dimensione del debito pubblico e anche per il rapporto tra debito pubblico e PIL. Ciò che viene trascurato è che, mentre un debito pubblico può avere molti costi (e non è da paranoici il monitorarlo), quest’ultimo è del tutto dissimile dal debito di una singola persona, che è detenuto da qualcun altro (qualcuno molto diverso). Un debito pubblico interno è posseduto principalmente da un’altra persona nella stessa economia. Le cifre relative a un’apparente grande debito pubblico possono essere senza grande sforzo sufficienti per spaventare una popolazione con le storie immaginifiche concernenti la rovina delle future generazioni, ma l’analisi sul debito pubblico richiede un giudizio critico più articolato invece che considerazioni ricavate sulla base di una un’analogia fuorviante che attiene all’indebitamento privato.
Qui ci sono due questioni distinte. In primo luogo, anche se si vuole in fretta ridurre il debito pubblico, l’austerità non è un modo particolarmente efficace per raggiungere lo scopo ([dato di fatto] che l’esperienza europea e britannica conferma). Per fare questo, abbiamo bisogno di una crescita economica; e l’austerità, come notò Keynes, è essenzialmente anti-crescita. In secondo luogo, ciò che è importante mettere in evidenza è che, mentre il panico può essere facile da generare, l’esistenza del panico non indica che vi sia motivo di panico. Non è meno importante affermare che la gente non è sempre stata spaventata a morte dalle dimensioni del debito pubblico. Il rapporto tra debito pubblico e PIL fu molto più grande in ogni anno [di fila] per due decenni in Gran Bretagna, dalla metà degli anni 40 fino alla metà del 1960, più di quanto non sia stato in qualsiasi momento dopo la crisi del 2008. Tuttavia, non ci fu panico allora (quando la Gran Bretagna creò con fiducia lo stato sociale), in contrasto con il preoccupante disordine, per non parlare del terrore orchestrato, che oggi sembra correre giù per la spina dorsale del terrorizzato cittadino inglese, facendo sì che l’austerità appaia come una risposta adeguata.
Quando la Gran Bretagna pionieristicamente introdusse lo stato sociale e istituì il Servizio Sanitario Nazionale, tra gli altri modi di ampliare i servizi pubblici, con Aneurin Bevan inaugurando l’Ospedale Park di Manchester il 5 luglio 1948, il rapporto tra debito e PIL fu superiore al 200 % , molto più del doppio di quanto sia stato in qualsiasi momento negli ultimi anni. Se il popolo britannico, in quei giorni, fosse stato così con successo spaventato per il rapporto debito, il NHS (SSN) non sarebbe mai nato, e il grande esperimento di godere di uno stato sociale in Europa (da cui tutto il mondo, dalla Cina, Corea, Singapore, Brasile fino al Messico dovrebbe imparare) non avrebbe trovato un punto d’appoggio. Un decennio più tardi, quando Harold Macmillan, un nuovo primo ministro dall’indole ottimistica, disse nel luglio 1957 che il popolo britannico “non era mai stato così bene“, la dimensione del debito pubblico inglese fu più del 120 % del PIL. [Si trattò di un valore] immensamente superiore al rapporto di circa il 70 % nel 2010, quando Gordon Brown fu accusato d’ipotecare il futuro della Gran Bretagna a causa della dissolutezza.
La paura non c’era sia tra la fine del 1940 sia nel corso degli anni 60, tanto con i governi labouristi così come con quelli conservatori in carica, forse perché allora coloro che volevano impaurire erano pochi. Cosicché la Gran Bretagna dotata di buoni servizi pubblici e [favorita] da un’economia di mercato fiorente, progressivamente ridusse il suo rapporto debito-PIL attraverso la crescita economica, nel momento in cui istituì lo stato sociale e una vasta gamma di nuovi servizi pubblici.
La conoscenza e la comprensione sono infatti fondamentali per la capacità di un governo democratico al fine di promuovere buone politiche. “The Economic Consequences of the Peace” si conclude indicando la relazione tra l’epistemologia e la politica, e sostenendo che noi siamo in grado di fare la differenza nel mondo solamente se si (le parole sono di Keynes) “mettono in moto quelle forze d’istruzione e d’immaginazione che cambiano le opinioni“. L’ultima frase del libro asserì la sua speranza: “Per la formazione del parere generale riguardo al futuro dedico questo libro” In questo impegno, vi è l’illuminazione così come l’ottimismo, entrambe le cose che oggi abbiamo fortemente bisogno.
This is an edited version of a lecture delivered by Amartya Sen at the Charleston Festival in Firle, East Sussex, on 23 May
Amartya Sen is professor of economics and philosophy at Harvard and won the 1998 Nobel Prize for economics. He is the inaugural winner of the Charleston-EFG John Maynard Keynes Prize and the author of many books, including “The Idea of Justice” (Penguin)
http://www.newstatesman.com/politics/2015/06/amartya-sen-economic-consequences-austerity
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