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Cacciari “Fermando il virus Draghi frenera’ la crisi, ma non riuscirà a fare le riforme”

18 Febbraio 2021 by Redazione Lascia un commento

Il filosofo: «Dopo quello che hanno combinato i partiti ora sono obbligati ad appoggiare il premier»

Bravo, ma non farà le riforme. Il giudizio di Massimo Cacciari sul primo giorno da preside della scuola Italia di Mario Draghi è benevolo, ma poco rassicurante. L’uomo non si discute, le sue possibilità di rivoltare il paese come un calzino sì. Per dirne una: «Come li metti d’accordo Forza Italia e Cinque Stelle sulla riforma della giustizia?». Non li metti d’accordo. «Appunto». Non è la paralisi (i soldi del Next Generation Eu sono nelle mani migliori possibili), ma neppure la Valle dell’Eden. Semplicemente un film diverso. Che al momento vince il premio della critica. Con una sola eccezione. Lui.

Professor Cacciari, le è piaciuto il discorso di Draghi?
«Certamente è stato un discorso più puntuale di quelli che ci eravamo abituati a sentire negli ultimi insediamenti. Ho apprezzato soprattutto la parte sulla pandemia».

Il virus come moltiplicatore delle disuguaglianze?
«La pandemia non è affatto neutrale, non colpisce tutti nello stesso modo. A pagare di più, a parte chi crepa, sonno i giovani, le donne, i lavoratori fragili. Non so se esistano dati anche da noi, ma negli Stati Uniti le statistiche dicono che i meno abbienti, le persone disagiate, sono colpite dal contagio quattro volte di più di chi sta bene».

Temo sia una statistica universale.

«Il nostro sistema di protezione è squilibrato, lo dico da mesi. Non si può affrontare la pandemia senza vedere che metà della popolazione è al sicuro mentre l’altra metà passa dai disagi gravissimi alla disperazione. Bisogna rimediare prima che salti il tappo e scoppi la rivolta sociale. Quando i licenziati usciranno da sotto il tappeto che sembra renderli invisibili avremo un problema. Non potremo ricorrere in eterno alla cassa integrazione senza mettere in crisi l’Inps e su questo tema non ho sentito dire un gran che».

Si aspettava l’emozione del gelido tecnocrate Mario Draghi?
«Ma la sua storia intellettuale e culturale – a partire dalle scuole che ha fatto e dai primi maestri che ha avuto (i gesuiti) – non è quella di un uomo gelido. Anche in Europa ha dimostrato di essere attento ai disagi e alle contraddizioni sociali».
Un tecnocrate con l’anima.

«Lasci perdere l’anima. La verità è che non esiste tecnica senza politica e chi pensa il contrario ha una visione arcaica».

Cito: “Saremo semplicemente il governo del Paese”. Straordinariamente ovvio o ovviamente straordinario?
«Di sicuro questo governo non ha una maggioranza politica. E non è nemmeno tecnico anche se è Draghi a dare le carte. I partiti non avevano scelta di fronte alla posizione di Mattarella e quella del premier è una sintesi più che una fotografia. Nel governo ci sono tutti, tranne la Meloni che pure è molto ragionevole».

Uniti verso un futuro pieno di riforme?
«Figuriamoci. Draghi non lo può dire, ma io sì: con questo governo le riforme non le vedremo mai».
Non esagera?
«Draghi non è il Padreterno e non potrà fare in un giorno quello che non si fa da 30 anni. Vuole degli esempi? Lo ius culturae evocato da Zingaretti lo vedremo mai in un governo con Salvini? E sulla giustizia è possibile trovare un punto di caduta tra 5Stelle e Forza Italia? Dubito. E così sarà per il fisco o per una vera riforma della scuola”.

Eppure la frase più netta del premier è stata: “L’unità non è un’opzione, è un dovere”. Come nel dopoguerra.
«I partiti hanno il dovere preciso di appoggiarlo e di non rompergli i coglioni dopo quello che hanno combinato. E Draghi è abbastanza intelligente da non chiedere cose impossibili. Ma il richiamo alla ricostruzione del dopoguerra è benevolmente ridicolo».

L’unità allora ci fu. Breve, ma ci fu.
«Sì, dal ’45 alla Costituente perché non si poteva fare diversamente. Poi la ricostruzione la fece la Dc con i suoi alleati lasciando fuori il Pci. Un po’ di memoria storica è necessaria. Altrimenti, citando Musil come ha fatto recentemente Donatella Di, si diventa come quelle persone che non hanno mai del tutto torto in niente perché i loro concetti sono indistinti come figure tra i vapori di una lavanderia. Comunque le parole di Draghi sono comprensibili e perdonabili».

Che scenario prevede, allora?
«Draghi interverrà sulla pandemia, organizzerà un nuovo piano vaccini e userà i soldi del Next Generation Eu anche per affrontare le gravi crisi industriali. Quelle, da Alitalia all’Ilva, sono vere gatte da pelare. In Senato ha detto una cosa su cui mi pare si siano soffermati in pochi: i soldi non andranno alle aziende decotte».
È la teoria del debito buono, che però – nell’immediato – rischia di produrre un sacco di persone a spasso.
«Mi aspetto che Draghi affronti le crisi in modo socialmente sensibile. Non so se basteranno i soldi europei, ma so che il sistema previdenziale è squilibrato e per immaginare un cambiamento servirà, in questo caso davvero, il contributo di tutti. Non ci sarà la patrimoniale, ma una manovra di bilancio decisa sì».

Professore, stavolta cito lei: il governo Draghi certifica il fallimento della politica. In Aula il premier ha sostenuto l’opposto.
«Mica poteva dire il contrario. E’ ovvio che la sua presenza è il risultato di una catastrofe politica. L’affermazione del premier la prenderei per un vezzo retorico».

In questo governo ci sono 15 ministri del Nord.
«Bah, secondo me Draghi neppure lo sa. E poi non è che il Nord sia sciocco ed egoista. I problemi dell’assistenza sono noti a tutti. Piuttosto sono due i punti politici da capire, la Lega e i 5 Stelle».

Partiamo dalla Lega.
«Sarà interessante vedere se questa svolta giorgettiana è radicata e destinata a durare con Salvini comunque leader».

E i 5 Stelle?».

«Vedere se esplodono o no».

Per ora vogliono federarsi con Pd e Leu.
«Mi pare un fatto positivo. Hanno davanti scadenze decisive (penso al voto in città come Torino, Roma e Napoli) e dunque è meglio che trovino un modo per marciare divisi e colpire uniti».

E il Pd?
«Si barcamena. Come sempre».

Nel discorso di Draghi una citazione per Cavour e una per Papa Francesco.
«Cavour lasciamolo stare. Il Papa quando si parla di ambiente ormai è un must. Per fortuna non ha citato San Francesco e il cantico delle creature».

Perché lasciamo stare Cavour?
«Perché per me che sono un federalista sarebbe stato meglio riferirsi a Spinelli, a Trentin o a don Sturzo piuttosto che evocare il centralismo autoritario sabaudo».

(di Andrea Malagutti- da https://www.lastampa.it/)-

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