(di Lafayette)-
Risulta talvolta vero quel detto secondo cui “tutte le disgrazie non vengono per nuocere”. Nel 390 a.C. quando i Galli Senoni sopraffecero i Romani e li costrinsero ad accettare un umiliante riscatto per togliere l’assedio sul colle del Campidoglio pareva che la storia di Roma si fosse fermata al calare di quella cocente sconfitta. Volsci, Latini ed Etruschi, da qualche anno sottomessi, ripresero vigore pronti a restituire il fio di ciò che ebbero subito in precedenza. Sebbene il crollo fu sia militare che politico, la Repubblica non si scoraggiò e prontamente reagì grazie alla riscoperta di due valenti comandanti: Furio Camillo e Tito Quinzio Cincinnato. L’esercito e il Governo furono riformati e ciò mise in condizione Roma in breve tempo di ricondurre alla ragione i suoi riottosi vicini. La vendetta nei confronti dei Galli si consumò un secolo dopo con la conquista da parte della Repubblica di gran parte dell’odierna Italia settentrionale.
Allegoricamente parlando si potrebbe traslare questo esempio di storia vissuta agli albori della grande rinascita della potenza romana ai giorni nostri con i fatti che si sono succeduti in questo ultimo mezzo secolo. Eventi che hanno condannato la socialdemocrazia europea in un ruolo marginale nel dibattito politico internazionale, perennemente “assediata” dalla montante temperie liberal-conservatrice con il suo progetto egemonico incardinato sul libero mercato. Ma la vera domanda da porsi oggi è: c’è finalmente lo spazio per una rinascita socialdemocratica europea che si ponga come obiettivo la valorizzazione dei bisogni della collettività nel suo insieme, in luogo di una fredda concezione della politica in chiave economicista diretta dal capitale finanziario?
In verità, vi sono stati dei tentativi negli ultimi tempi, tesi a ribaltare il vigente dettame, opposizioni che si sono concretizzate grazie alla vertiginosa esplosione di nuove formazioni pseudo-partitiche, dispregiativamente appellate dall’establishment corrente con il termine di “populismo”. Sebbene abbiano riscosso un consenso inaspettato, queste secondo la tassonomia politica, si potrebbero collocare con più rigore nella casella “anarco-sindacalista” anziché in quella “socialdemocratica”. Tuttavia, Podemos, il Movimento 5 Stelle (Syriza, che pur mostrando qualche analogia, si differenzia dalle prime due) sono “agglomerati” compositi, protestatari, antisistema che fanno principalmente dell’etica politica e non della strategia politica il loro cavallo di battaglia e qualora vincessero le elezioni, si rivelerebbero totalmente incapaci di reggere l’alternativa ai governi attuali in un mondo dominato dal capitale globale. Poi, diciamo la sincera verità, Spagna, Grecia, (per l’Italia il discorso è un po’ più complesso) sono paesi che non possono vantare né un prestigioso excursus storico del pensiero politico, né tanto meno una tale autorevolezza in grado di far riflettere l’intellighenzia internazionale. Se, storicamente parlando, non si può più far conto su un eventuale “ripensamento critico” della SPD – basterebbe scorrere le pagine che narrano la sua vergognosa capitolazione verso il nazionalismo allo scoppio della prima guerra mondiale e la sua disonorevole liquefazione nella Repubblica di Weimar – né altrettanto lo si potrebbe fare su quel variegato pensiero socialdemocratico meridionale, come sempre in preda a interminabili liti domestiche. Mentre per il Labour britannico la speranza che vi sia un’inversione di tendenza rispetto al nuovo solco del liberalismo classico, che venne tracciato con il New Labour sul finire degli anni 90, è assai più probabile. Qualcuno sottolinea che se gli inglesi ebbero il coraggio di licenziare bruscamente nelle elezioni generali del 45 l’uomo di Stato che li condusse alla vittoria nella seconda guerra mondiale, Sir Winston Churchill a vantaggio dell’allora meno noto premier labourista Sir Clement Attlee, quindi è possibile che Jeremy Corbyn domani diventi il vero vincitore delle primarie labouriste, ossia il più accreditato candidato d’opposizione a sfidare David Cameron nel 2020.
Si sono fatte molte ironie su questo uomo politico sessantaseienne, la più simpatica è quella del The Economist che in uno sketch lo raffigura come l’alfiere seguito da una schiera disordinata di lemming che corrono festanti verso il dirupo pronti al suicidio di massa. Quando vennero definite le candidature per le primarie nel Labour, “nonno” Jeremy fu messo lì quasi per caso accanto al quel trio di baldi proattivi quarantenni assai noti per quella insolita, ma quanto pare “rivoluzionaria”, caratteristica secondo cui l’agire in politica debba precedere il pensiero stesso. Ognuno dei tre concorrenti era assistito da uno staff di esperti nel settore mediatico-comunicativo, ingaggiati per far dimenticare lo stile uppish e compassato di Ed Miliband. Per completare lo show della politica postmoderna era necessario che vi fosse anche un personaggio come il “nonno” Jeremy; una figura un po’ demodé, dalla bianca lanuggine, di basso profilo, un abile comiziante privo di un guru dell’immagine. Corbyn è un noto rappresentante del Labour londinese (Islington) che dagli anni ottanta a oggi, come MP di Westminster, ha sempre condotto una battaglia quasi solitaria per rintrodurre in economia concetti keynesiani. Un cortese ardito ma sdegnoso vecchietto assai critico verso i suoi compagni di partito ormai completamente abbacinati dal miracolo del mercato; una anticaglia di “sinistra” con le sue perenne ossessioni, come la difesa dei diritti dei lavoratori, la protezione dell’ambiente, il problema della crescente disuguaglianza sociale, la povertà nelle aree urbane, le condizioni di sfruttamento che affliggono il lavoro giovanile; infine popolare per il suo noioso refrain verso la delittuosa “impresa” irachena. Molti esponenti del Labour non sopportavano più “nonno” Jeremy, oltre a sbandierare criticità d’altri tempi, non smetteva mai di richiamare i vertici a un comportamento più eticamente responsabile. Bando a questa sfilza di sciocchezze antiquarie, un grande partito sente costantemente l’opportunità di trasmettere al suo elettorato un’immagine di serena compattezza interna, sebbene vi siano diverse e qualche volta laceranti contrapposizione tra gli eletti. Quale politico labourista sarebbe stato più adatto per far veleggiare i valori tradizionali nella quartina dei candidati, se non quel “relitto” di Jeremy Corbyn?
Sennonché, a metà della corsa (il contest terminerà il 12 di settembre) “nonno” Jeremy, accreditato in partenza intorno a un misero 15%[1] raccoglie il 60% dei consensi dalla platea dei votanti. Ma c’è di più, in un partito dove da almeno dieci anni si discute come fermare l’emorragia degli iscritti, il vegliardo ambientalista in meno di due settimane intercetta l’adesione di 400.000 neo tesserati pronti a sostenerlo per l’intera campagna delle primarie. Nemmeno il più esperto sondaggista avrebbe potuto congetturare un tale risultato. Ovviamente, il partito e l’intera società inglese entrano in fibrillazione. I conservatori dal canto loro gongolano perché la radicalizzazione del Labour spianerà al proprio partito la strada per la definitiva cattura del cosiddetto “voto mediano”; i liberal democratici esultano solo al pensare di poter rimpinguare quel magro bottino raccolto dopo la sciagurata decisione di sostenere per cinque anni il governo di David Cameron; infine gran parte dell’establishment labourista, per anni agente di una politica “virtuale” più che reale si domandano sconsolati e increduli come poteva accadere un simile epilogo. Qualcuno incomincia a pensare strane teorie complottiste fino a sospettare che la valanga di adesioni verso Corbyn sia composta da cittadini di fede conservatore, ma travestiti per l’occasione in labouristi al fine di distruggere il partito. Ci si culla per un po’ su questa strampalata ipotesi fin quando il The Guardian non decide di sondare l’opinione su base nazionale dei votanti Labour. Il noto quotidiano inglese pubblica i risultati il 24 Luglio[2]: il 78% degli intervistati affermano di sostenere Jeremy Corbyn, per gli altri tre le percentuali sono irrisorie (Liz Kendall 8%, Andy Burham 5%, Yvette Cooper 9%). Lo sconcerto nel partito è totale. Ma quello che “brucia” di più è l’opinione dei votanti Labour nei confronti del presunto trio delle meraviglie: “sono semplicemente dei carrieristi[3] troppo compiacenti nei confronti delle politiche del Conservative Party (Tory-lite). Per la blairiana Liz Kendall il verdetto è ancora più umiliante: “ha sbagliato partito s’inscriva in quello di Cameron”[4].
In effetti chi non rimarrebbe sorpreso da una vicenda del genere: l’establishment seleziona per il contestfinale nel rispetto delle regole i tre candidati più accreditati in rapporto al presunto peso delle correnti all’interno del partito, poi ne affianca un quarto, un sessantaseienne senza pretese, a condizione che egli si debba limitare esclusivamente ad agitare la bandiera rossa senza accampare grandi pretese, e quest’ultimo raccoglie più di ¾ del consenso dei votanti Labour. La risposta è ovvia: esiste un profondo iato di progettualità politica tra i vertici del partito e il suo elettorato di riferimento. Ad incrementare il vantaggio di Corbyn ci ha pensato involontariamente la componente liberale (Blair, Mandelson), la quale ha “invitato” perentoriamente gli iscritti Labour a votare indistintamente uno del trio purché non lo si facesse per il “vecchio” Jeremy. Questo goffo e improvvido messaggio non ha fatto altro che accomunare i tre candidati come sodali della destra, sebbene tra loro ci fossero differenze, e così facendo hanno urticato il voto centrista del partito che è confluito in massa verso Corbyn.
Tuttavia, a prescindere delle tattiche errate, o dalle salaci battute (Corbydemos, Corbynist) il successo di Corbyn è dovuto a un labourista che non ha mai derogato ai suoi principi a scapito dei compromessi di potere. Ne sono la testimonianza i suoi 35 anni di presenza a Westminster eletto più volte con una maggioranza schiacciante in una constituency (Inslington) abitata dalla riflessiva middle-class londinese e non dallaworking class “trinariciuta” delle Midlands o dello Yorkshire. Se negli anni 90, dopo il liberalismo conservatore della Thatcher, poteva funzionare un Labour al governo che mitigasse la precedente forte impronta liberista, ora dopo la crisi finanziaria del 2008, in presenza di una sempre più accentuata disuguaglianza sociale, di un impoverimento della classe media e di una marcata riduzione dello stato sociale, l’elettorato Labour, soprattutto quello scozzese, fu più volte deluso da un progetto politico vago e per di più troppo compiacente nei confronti dell’economia neo-liberista. Il “just a little bit less than”, ovvero proporre ogni volta che i Tory attuano politiche privatiste una mediazione offrendo un “pizzico” di socialità non funziona più. Nelle ultime elezioni di maggio, molti elettori labouristi hanno disertato le urne e in Scozia, dove i Conservatori letteralmente non esistono, il Labour subì un drammatico tracollo perdendo una cinquantina di seggi a favore dello Scottish National Party, guidato da una semi-sconosciuta Nicola Sturgeon, che nel suo manifesto elettorale criticò aspramente la politica governativa dell’austerity. Un altro fattore che corrobora il successo di Corbyn è dato dal cambiamento anagrafico dell’elettorato orientato a sinistra. Vi sono migliaia di giovani inglesi che stanno pagando un prezzo molto alto a causa delle misure economiche di Osborne: sottooccupazione, sfruttamento, prezzi delle case vertiginosi, ecc. Molti di questi nelle ultime elezioni si sono astenuti o hanno votato partiti minori della galassia di sinistra come i Green o la Left Unity disperdendo le forze. Ora, nel “vecchio” Jeremy stanno trovando quel valido interlocutore capace di rappresentare le loro istanze di maggior giustizia sociale. Ha ragione Laurie Penny[5] quando afferma che per anni il partito labourista si occupato della democrazia fin quando il suo elettore depositava la scheda nell’urna, per poi dimenticarsela il giorno dopo.
Se Jeremy Corbyn vincesse, come molti pronosticano, si materializzerebbe una svolta cruciale nel socialismo europeo dopo più di quaranta anni di una sua colpevole indulgenza al modello liberale basato sulla grande finanza. Del resto, la socialdemocrazia inglese è sempre stata antesignana in fatto di “svolte”: Tony Blair anticipò di un decennio Gerhard Schröder e questo a sua volta sta ispirando il “neo futurista” italico.
Facendo affidamento sul proverbio iniziale “non tutte le disgrazie vengono per nuocere” quattro decenni di “disgraziate” logiche economiche neoliberiste potrebbero lasciare il passo a una versione moderna di un modello keynesiano assai più consono alla realtà attuale (Varoufakis docet)[6]. Ma questo accadrebbe solo a condizione che nel paese vi fosse già presente una sovrastruttura politica di tipo socialdemocratico, e con ciò sarà finalmente giunto il momento di rispedire i “Galli” nel loro pollaio.
[1] http://www.newstatesman.com/politics/2015/08/can-jeremy-corbyn-and-labour-mps-learn-get-along When his candidacy was announced in four short paragraphs in his local paper, the Islington Tribune, on 3 June, most believed that he would struggle to avoid finishing last.
[2] http://www.theguardian.com/politics/2015/jul/24/why-labour-voters-are-turning-towards-jeremy-corbyn
[3] The Guardian: So Cooper was a “stop-gap”, a “career politician” who could steer the tiller for a few years until a more promising leader came along.
[4] The Guardian: Liz Kendall, who received 8% support, was described by some as being in the wrong party.
[5] http://www.newstatesman.com/politics/2015/08/what-corbyn-moment-means-left
[6] https://democraticieriformisti.wordpress.com/2015/03/31/e-se-yanis-varoufakis-avesse-ragione/
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