(di Carlo stagnaro-da http://www.leoniblog.it/)-
Chi ha ragione: i Simpson oppure Alessia Mosca?
L’antefatto: in una puntata dei Simpson, il mezzobusto Kent Brockman, rivolgendosi al preside Skinner nella cui scuola tutti copiano da tutti, esclama: “Questa scuola è più corrotta del parlamento italiano!”. La deputata del Pd, Alessia Mosca, ha commentato:
sono molto indignata. Mi aspetto una reazione molto forte. Nessuno ci deve venire a far lezione come noi non andiamo a casa degli altri a dire cosa devono fare loro; nessuno ci può venire a far la morale quando ciascuno ha in casa propria situazioni non edificanti.
La reazione di Mosca è comprensibile ma, credo, evasiva. Non solo perché non mi è chiaro chi e come dovrebbe “reagire”. Soprattutto perché non è colpa del cartone di Matt Groening se l’Italia ha fama di paese corrotto. E’ colpa nostra. Secondo l’ultima edizione (2012) del “Corruption Perceptions Index” l’Italia arriva al 72mo posto. Tra gli Stati membri dell’Unione europea, sotto di noi si trovano soltanto la Bulgaria (75) e la Grecia (94). L’indicatore sul “Control of Corruption” della Banca mondiale ci attribuisce la 58ma posizione, e anche qui siamo tra le cenerentole d’Europa. La stima della Corte dei conti, secondo cui la corruzione costa al paese 60 miliardi di euro all’anno di mancata creazione di ricchezza, è nota a tutti. (Probabilmente Mosca ha ragione su un punto: il Parlamento non è l’istituzione più corrotta del paese, almeno nel senso penale del termine, per l’ottima ragione che il singolo parlamentare ha ben poca possibilità di erogare favori, in un Parlamento dequalificato e svuotato di poteri).
Non dobbiamo stupirci, comunque, se l’immagine dell’Italia nel mondo non è solo quella del paese del sole, ma anche quella del paese della bustarella. Piuttosto, dovremmo chiederci da dove nasca la diffusione della cultura della tangente e come sia possibile sradicare questo male, uno dei principali ostacoli alla crescita economica (non è un caso se la Heritage Foundation la inserisce tra i 10 indicatori della libertà economica).
La questione è, ovviamente, di estrema complessità. Tuttavia, vi sono alcune considerazioni ovvie – ma, per paradosso, non scontate – che occorre svolgere. Infatti, non si può pensare di sconfiggere la corruzione puntando solo sull’efficacia delle sanzioni o su complicati arzigogoli normativi tesi a prevenire comportamenti potenzialmente a rischio. Le sanzioni servono ma non bastano; la burocratizzazione è ora inutile, ora dannosa, perché o colpisce anche comportamenti leciti, oppure crea essa stessa occasioni di corruzione.
Ci sono, piuttosto, almeno quattro fattori che contribuiscono a rendere la corruzione un fenomeno endemico. Si tratta di quattro elementi che caratterizzano l’ordinamento italiano e che contribuiscono a spiegare perché Brockman abbia fatto quella battuta proprio sull’Italia e non su un altro paese.
Il primo elemento è il peso dello Stato. Se io corrompo un funzionario, è perché mi aspetto di ottenerne un beneficio. Il numero e l’entità dei benefici sono tanto più estesi, quanti più ampi sono i poteri dei governi nazionale e locali. Più lo Stato regolamenta, più lo Stato spende, e maggiore è il potenziale payoff della corruzione. L’epicentro di questo fenomeno, dal punto di vista della spesa pubblica, è – controintuitivamente rispetto a tanta retorica – la spesa per investimenti, come spiegano Vito Tanzi e Hamid Davoodi in questo paper ormai classico che prende le mosse dalle vicende di Tangentopoli. Il nesso tra spesa pubblica e corruzione si deteriora spesso, nelle zone ad alta penetrazione di criminalità organizzata, in una fondamentale forma di finanziamento delle mafie. Limitare la spesa pubblica, e soprattutto la spesa in conto capitale, prosciuga il brodo di coltura dei corruttori.
Il secondo elemento è la qualità della regolamentazione. A parità di spesa e di interferenza pubblica nella vita economica di un paese, più le norme sono confuse e mutevoli, più è probabile (e conveniente) che qualcuno corrompa qualcun altro: per accelerare un procedimento, per ottenere un beneficio a cui non ha titolo, o per avere una leggina su misura. Tempo fa avevo mostrato la stretta relazione esistente tra la diffusione della corruzione e la qualità della regolamentazione: secondo il motto di Tacito, corruptissima re publica plurimae leges. Se lo Stato s’impiccia della regolamentazione di dettaglio dei settori economici, decidendo chi può entrare e chi no, limitando la contendibilità delle imprese, restringendo gli spazi di concorrenza, imponendo certe condotte, si aprono infinite opportunità di corruzione potenzialmente vantaggiose per chi, in tal modo, può consolidare un vantaggio competitivo.
Il terzo elemento sta nel fatto che lo Stato – e dunque le occasioni di corruzione – agisce non solo attraverso le norme, ma anche attraverso strumenti più diretti nella vita economica. Quello più importante sono le aziende pubbliche, non di rado vere e proprie centrali di malaffare e di appalti assegnati fuori mercato. Quando si racconta l’apologo della siringa che ha prezzi diversissimi in aree diverse del paese, si sottende che che dietro vi siano fenomeni corruttivi (anche se sarebbe troppo semplice attribuire il fenomeno alla sola corruzione). A maggior ragione, più elevato è il numero di centri di spesa più o meno discrezionale, e più alta è la probabilità che si instaurino rapporti irregolari. La proprietà pubblica delle imprese è l’anticamera della corruzione. Infatti il manager di un’impresa pubblica non deve, generalmente, creare valore per gli azionisti, ma solo essere funzionale agli obiettivi di consenso di chi lo ha nominato.
Infine, e questo è veramente ovvio, più le procedure sono opache, più è possibile che vengano a determinarsi relazioni pericolose tra funzionari pubblici e fornitori privati. Lo ha riconosciuto Luigi Giampaolino in un intervento molto netto sul tema, nel quale ha argomentato che i quattro pilastri della lotta amministrativa alla corruzione, più che la durezza delle sanzioni, dovrebbero essere “l’etica, la trasparenza attraverso l’uso dell’ICT, la semplificazione, il controllo collaborativo”. L’etica può essere una faccenda soggettiva, ma trasparenza e digitalizzazione delle procedure, semplificazione amministrativa ed efficacia dei controlli sono tutte questioni afferenti il modo in cui il settore pubblico funziona.
I Simpson non sono la causa della cattiva immagine dell’Italia nel mondo; sono solo l’effetto di una corruzione diffusa e pervasiva. Se vogliamo evitare che, nel futuro, i cartoni animati ripropongano lo stereotipo dell’italiano maneggione, dobbiamo fare in modo che i fattimostrino un tipo umano differente, e dunque che le statistiche assegnino al nostro paese una posizione più lusinghiera. La via maestra per ottenere questo risultato è ridurre il peso e la discrezionalità dello Stato: tagliare la spesa pubblica (specie per investimenti, lasciando che siano i privati a effettuarli); adottare strumenti per il miglioramento della qualità della regolamentazione e deregolamentare e liberalizzare ovunque possibile; privatizzare le imprese pubbliche per assoggettarle alla disciplina del mercato; introdurre procedure più semplici e trasparenti all’interno del settore pubblico.
Se vogliamo sconfiggere la corruzione, dobbiamo avere il coraggio di rivolgere allo Stato la stessa richiesta che i credenti rivolgono al buon Dio: “non ci indurre in tentazione”. Fuor di metafora, per sconfiggere la corruzione non bastano più gendarmi o pene più dure: serve soprattutto che le vie del paese siano percorse da meno diligenze col cartello “svaligiatemi please”.
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