(di Lafayette)-
L’appannamento dei tre storici paradigmi di riferimento dell’azione politica (socialismo, liberalismo, conservatorismo), e il successivo loro esaurimento al calar del secolo da pensiero organizzato a puro mercimonio elettorale – principalmente nel nostro paese, ma non solo – contribuì a generare una reazione anti-ideologica facendo così nascere un altro tipo d’offerta pubblica: quella della presunta politica del “buon fare”, basata principalmente sulle competenze amministrative, sul supposto buon governo e infine sul rapporto fideistico tra “capo” ed elettorato. In origine, nel pieno rispetto del meccanismo di rappresentanza democratica, la funzione dei partiti e i molteplici corpi intermedi, oltre che racchiudere lo scrigno dei valori o di tutela degli interessi, fungevano sia da filtro sia da “feed back” verso, e in risposta, alle istanze provenienti dall’ambiente sociale. In generale, nello scenario europeo, a partire dall’avvento del processo di globalizzazione, la funzione della politica e quindi della rappresentanza si è trasformata similarmente ai modelli operanti all’interno dell’impresa capitalistica.
Secondo un’opinione diffusa, questo cambiamento avrebbe avuto il merito di eliminare aspetti deteriori della “vecchia” politica, tra cui l’immobilismo, le rendite di posizioni, verso la quale si rimproverò d’aver a lungo impedito il cambiamento a discapito del benessere della collettività. La rapida decisione, il ruolo centrale della tecnica, la flessibilità di adattamento ai mutamenti esogeni e l’importanza della comunicazione, si ritennero che fossero le soluzioni adatte per affrontare le dinamiche relazionali che si stavano configurando in un mondo globale. A rafforzare la convinzione secondo cui l’agire politico post-moderno dovesse inchinarsi al dettato economico-finanziario si aggiunse l’emersione di quelle nuove potenze orientali che balzarono in un battibaleno dalla sponda di un comunismo primordiale a quella d’un capitalismo aggressivo, senza essere mai state traghettate attraverso il corso del liberalismo e della socialdemocrazia. Sicché, l’Europa, che si straziò per tre secoli in una lotta acerrima e intestina al compimento della quale ne diventò la culla delle libertà democratiche moderne, si dovette adeguare a subire gli influssi regressivi esterni riducendo in questo modo il peso della partecipazione popolare verso le cruciali scelte di governo. Invece, per taluni, ancora oggi, non si tratta di “regressione”, bensì di un passo in avanti entro il solco di una presunta applicazione della teoria liberal-democratica. Mi riferisco relativamente in questo caso ai “neo-futuristi”, ai “semplificatori” a coloro che credono che “aziendalizzando” la struttura istituzionale dello Stato, riducendo il potere di mediazione dei partiti fino a svuotarli, e infine innalzando la leadership politica a simulacro divino incontestabile, reputano – alcuni in buona fede, altri no – d’incarnare il nocciolo del pensiero liberal-democratico novecentesco e in particolare quello di John Rawls. La rapidità decisionale, la ricorrente esaltazione di un “futuro radioso” e la manipolazione dell’informazione, se non addirittura delle fonti, hanno preso il sopravvento sui fondamenti inerenti la partecipazione popolare, l’inclusione sociale e la riflessione cosciente. Blair fu il vaticinatore del nuovo corso, sempreché ne esca bene dalla Commissione d’inchiesta per l’accusa d’aver mentito spudoratamente al popolo inglese e così causato la morte inutile di alcune centinaia di soldati suoi compatrioti in IRAQ.
Sennonché il pensiero di Rawls, forse il teorico più osannato della corrente dottrina liberal-democratica, non ha nulla a che vedere con coloro che si spacciano attualmente come suoi estimatori. Rawls non ebbe dubbi sulla superiorità dell’economia capitalista rispetto a quella di Stato e conseguentemente sul ruolo centrale del mercato nell’economia. Tuttavia, non smise mai di elencarne i limiti in presenza d’esternalità. Egli sostenne che in alcune ambiti sociali (scuola) il mercato non dovesse svolgere un ruolo centrale e che tale funzione fosse meglio esercitata dalle istituzioni pubbliche. Ma il cuore di Rawls batté principalmente per i concetti di filosofia politica espressi nel suo famoso saggio “La Teoria della Giustizia”. L’intellettuale di Baltimora elencò due principi: il primo fu quello di massima libertà per tutti compatibilmente, come ovvio, con la libertà degli altri; il secondo si potrebbe scindere in due parti. La prima riguardò un principio di equa uguaglianza delle opportunità e la seconda fu il cosiddetto principio di differenza. Questa è la parte più misteriosa e controversa della teoria della giustizia. Il principio di differenza dice che ci possono essere differenze di reddito e di benessere, ma tali difformità devono essere sempre giustificate alla luce di un vantaggio di chi sta peggio nella società.
Detto questo, guardandoci intorno, possiamo veramente pensare che viviamo in un periodi “equa uguaglianza delle opportunità”? Riteniamo che tuttora le differenze di reddito e di benessere siano maggiormente giustificate rispetto a quelle che vigevano negli anni 70?
Oggi, stiamo assistendo a quello che il politologo inglese Colin Crouch chiama la “post democrazia”, una variante spuria del pensiero liberal-democratico assimilata quasi al realismo sovietico. L’accademico di Oxford nel suo noto saggio del 2003, intitolato appunto “Post-democrazia”, illustra i motivi secondo i quali, subitaneamente alla fase meramente democratica che ha caratterizzato i paesi occidentali nei primi decenni del dopoguerra, a partire dal fenomeno della globalizzazione si assistette sempre più a un processo in cui gradatamente e volontariamente venne ridotta la possibilità effettiva dei cittadini d’intervenire sulle scelte pubbliche. Sgombrando il campo dalla stucchevole retorica democratica, afferma Crouch, le istituzioni statali hanno ormai ridotti margini d’azione di fronte ai flussi economici globali e al potere delle grandi aziende multinazionali. Queste, mediante il proprio agguerrito sistema lobbystico, sono in grado sia di condizionare le scelte politiche spesse volte con artefici illegali, sia di contrattare con governi compiacenti garanzie che permetta loro di sfruttare scappatoie fiscali (articolo del Der Spiegel)[1]. La società civile si riduce sostanzialmente a poco più che una finzione scenica dietro cui si nasconde il paravento di potenti gruppi d’interesse, i quali congetturano con l’apparato politico ed amministrativo per trarre i massimi vantaggi. Per celare questa tetra rappresentazione le masse sono manipolate dai mass media (la macro-media di Krugman)[2]; all’interno dei partiti la democrazia e lo spirito critico sono privati della loro efficacia a discapito di comitati ristretti, non dissimili dalle strutture dirigiste aziendali. Prevale la figura carismatica del leader, del “Grande Traghettatore”, a cui tutti i suoi adepti devono rispetto e soprattutto cieca obbedienza, pena pesanti sanzioni. Nel complesso i politici si rivolgono all’elettorato come se stessero vendendo un prodotto e non un progetto di società. Su tutta questa congerie d’intrecci affaristici legali, semi-legali e illegali (scandali bancari, appalti truccati) le classi dirigenti “aprono” l’ampio ombrello della liberal-democrazia che funge da parasole ai reali interessi che si disputano sottobanco. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con i veri principi liberal-democratici enunciati a suo tempo da John Rawls.
La tesi di Colin Crouch https://it.wikipedia.org/wiki/Colin_Crouch ed i suoi successivi lavori è rimasta per molto tempo all’interno del perimetro oxfordiano o al massimo entro dei circoli intellettuali inglesi, finché non eruppe la crisi nel 2008 da lui ben argomentata ottenendo un successo editoriale inatteso con il suo libro “The Strange Non-death of Neo-liberalism”http://www.politybooks.com/book.asp?ref=9780745652214. Da allora in poi, il pensiero del politologo inglese di Isleworth è diventato sempre più un argomento di discussione sulle pagine della grande stampa nazionale britannica, in particolare sul quotidiano The Guardian e non solo (pure il The Economist si è soffermato sugli interrogativi posti da Crouch, pur non citandolo, nel noto survey “What’s gone wrong with democracy” nel marzo del 2014. Molti credono che, pur non essendoci una diretta relazione tra i due, il politologo abbia contribuito con le sue pubblicazioni alla sorprendente vittoria di Jeremy Corbyn nelle primarie labouriste. Proprio questa settimana il The Guardian ritorna sull’argomento mediante la penna del suo editorialista economico Paul Mason, il quale rifacendosi alle tesi di Crouch, discetta sull’opportunità di una Brexit giungendo alla stesura di amare riflessioni:
“L’Europa è diventata un paese antidemocratico dove le forze contano di più che la legge. Solo le banche, le grandi multinazionali hanno qualsiasi potere nei confronti di questo anonimo semi-super stato.”
“Negli anni passati in due occasioni quando l’Europa venne messa alla prova la solidarietà europea si è dissolta. I critici affermano che la Grecia è stata distrutta dalla BCE, la quale avrebbe dovuto tenerla a galla. Non ci fu nessuna riparazione democratico ……. E’ difficile evitare la conclusione riguardo al fatto che l’Europa stia diventando un continente in cui la forza è più importante della legge. La Germania ha costretto la Grecia ad accettare un programma che distruggerà la sua economia e la spoglierà del suo patrimonio per i prossimi 50 anni…….
Le mie richieste scritte si concentrerebbero sullo squilibrio di potere e sulla tendenza ad usarlo in modo arbitrario. Per essere l’Unione Europea [considerata] uno Stato legittimo, anche debole, significa che il suo potere legislativo deve controllare il suo esecutivo. Lo Stato di diritto significa rapido rimedio e preventiva osservanza: ma il diritto europeo non è né rapido né applicabile senza una costosa e retroattiva giustizia. La tendenza della BCE ad agire in modo politicizzato e arbitrario non è solo un problema per i paesi della zona euro, ma per l’intero progetto”.[3]
[1]http://www.spiegel.de/international/europe/eu-faces-tough-battle-to-curb-tax-avoidance-and-evasion-a-900900.html ……innovation isn’t the only source of BASF’s profitability…….. has a large tax department, whose work consists partly in moving money around between continents. But now the company has discovered a tax haven right at home in Europe. In addition to a large plant, the company operates the BASF Belgium Coordination Center in Antwerp. Some 160 employees at the center spend a portion of their time searching for legal ways to reduce BASF’s tax bill. In 2011, the company paid taxes on its many millions in profits at a rate of only 2.6 %.
[2] https://democraticieriformisti.wordpress.com/2015/05/30/paul-krugman-e-la-sua-macro-media/
[3] http://www.theguardian.com/commentisfree/2015/oct/18/eu-referendum-paul-mason In the past year, on two occasions when tested, European solidarity fell apart. Critics say Greece was smashed by the European central bank that was supposed to keep it solvent. There was no democratic redress……. It’s hard to avoid the conclusion: Europe is becoming a continent where force matters more than law. Germany forced Greece to accept a programme that will destroy its economy and strip its state of assets for the next 50 years. My own written demands would focus on the imbalance of power and the tendency to use it arbitrarily. For the EU to be a legitimate state, even a weak one, its legislature must control its executive. The rule of law means swift redress and advance compliance: but European law is neither swift nor enforcable without expensive retrospective justice. The ECB’s tendency to take politicised and arbitrary action is not just a problem for euro countries, but the whole project.
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