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E se Yanis Varoufakis avesse ragione?

13 Aprile 2015 by Redazione Lascia un commento

(di Lafayette)-

L’economista Yanis Varoufakis non deve essere giudicato solo per la sua abilità con la quale riesce ad accattivarsi i media internazionali e parimenti il fastidio dell’establishment tedesco, bensì soprattutto per la padronanza della disciplina macroeconomica internazionale e la lucidità con cui esprime le sue tesi alternative al concetto di austerity. Qui, riportiamo il link che introduce un’esposizione sintetica della sua proposta sostitutiva all’imperante “ideologia” tedesca, chiamata con una venatura po’ beffarda “Piano Merkel”. L’articolo, a tergo riportato, è stato estratto dal periodico elettronico Keynes Blog. Ovviamente, non è attribuibile a me l’ottima traduzione dall’inglese. La lettura del testo induce a ricercare quali sono gli assunti disciplinari attraverso cui Varoufakis fonda il suo ragionamento. Ampliando la ricerca è altresì possibile scadenzarne i passaggi più rilevanti immaginando un dato schema logico.

  • Si suppone che come punto di partenza l’economista ateniese si rifaccia al noto studio del Nobel Robert Mundell[1], in base al quale l’area valutaria ottimale non deve necessariamente coincidere con i confini nazionali. Detto ciò, il greco dedurrebbe che l’area monetaria dell’euro è per così dire “imperfetta”, poiché racchiuderebbe territori disomogenei confinati all’interno di singole nazioni, parte dei quali ancora affetti da culture e sistemi istituzionali strutturalmente pre-capitalistici (Spagna meridionale, Mezzogiorno italiano, Grecia ecc.) a causa di quei pesanti retaggi storici di cui l’Europa settentrionale seppe anzitempo sgravarsi.  (Qui, non si escluderebbe il richiamo alla nota tesi istituzionalista di Karl Polany).
  • Varoufakis sottolinea il convincimento che sta maturando nel dibattito macroeconomico internazionale, ossia il fatto che per affrontare l’asprezza di questa crisi si debba superare lo storico confronto tra Hayek e Keynes. Detto in altri termini: si abbandoni la sterile contrapposizione tra liquidazionismo e interventismo statale; il primo già fallito con l’applicazione dell’attuale austerità; il secondo non più proponibile rispetto agli scenari degli anni 30 con stock di debito pubblico nazionali di gran lunga inferiori rispetto agli attuali.
  • Egli ci fa riflettere sulla tesi che esista una corretta analogia tra zona valutaria euro e gold standarde successivo gold exchange standard,in quanto entrambi contrassegnati dal tipico vincolo dei cambi fissi. Varoufakis ci ricorda, sebbene non esplicitamente, che tali sistemi, le cui valute erano fissate a un valore metallico (regola del gioco) o monetario, sono miseramente falliti. In particolare, il gold standard creò parte delle condizioni politiche che spinsero l’Europa in due drammatici conflitti fratricidi.
  • In riferimento alle prime tre considerazioni, l’economista greco sostiene che qualora non si applicasse una forzata marcia verso una politica economica europea che privilegi gli investimenti, come fase di passaggio verso una maggiore integrazione bancaria e fiscale dell’area euro, lo scenario economico futuro del continente non cambierebbe. Partecipare in un sistema a cambi fissi, il cui “paese guida” continui a macinare surplus commerciali (mercantilismo), non farebbe altro che “scaricare” sui partner “vincolati” con un’economia più debole la riduzione dei prezzi e il costo del lavoro (deflazione), non potendo questi agire sulla leva monetaria così da deprezzare la propria moneta per ritornare in posizione d’equilibrio. Varoufakis ci porta a congetturare che, stando la situazione attuale, in assenza d’investimenti comunitari condivisi, qualsiasi altra decisione assunta dai Governi dei paesi “periferici” in materia di politica fiscale (l’unica possibile) sul proprio territorio non solo avrebbe nell’immediato scarsa efficacia, ma prolungherebbe un’agonia che con il tempo finirebbe per fomentare disordine sociale con gravi conseguenze sul piano politico (Alba Dorata, Front National, Lega Nord, ecc. Questa eventualità è stata più volte richiamate dall’economista americano Barry Eichengreen).
  • Infine, l’economista greco, benché celebri il coraggio di Draghi, non parrebbe entusiasmarsi eccessivamente del quantitative easingdella BCE volto ad acquistare titoli di debito pubblico sul mercato secondario – del resto non sarebbe l’unico a pensarla in questo modo – poiché, a suo avviso, gli ipotetici vantaggi monetari ben difficilmente si tradurrebbero nell’economia reale del vecchio continente, essendo l’Europa, a differenza degli USA, fondamentalmente “banco-centrica”. Si ha l’impressione che Yanis Varoufakis tema che le sole misure monetarie non convenzionali alimenterebbero una bolla finanziaria, o peggio incrementerebbero ancora di più il trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale (Joseph Stiglitz). In altri scritti, l’economista ateniese, in modo tecnicamente corretto, sostiene che ciò porterebbe a un aumento sproporzionato della bilancio della BCE, e se oggi, egli afferma, tutti giubilano per l’acquisto di attività nazionali da parte della banca, chissà cosa diranno gli stessi quando verrà il momento di venderle riducendo “moneta” dalle passività.

Non entro nel merito riguardo al suggerimento di Varoufakis volto all’acquisto di titoli della BEI, anziché bond statali. Lascio a voi giudicare, anche se a mio modesto parere ritengo che sia l’unica seria proposta fin qui giunta, la quale, per altro, escluda una condivisione totale del debito così tanto disprezzata dall’establishment tedesco. Concordo pienamente con la sensata valutazione, citata da Varoufakis nel suo breve saggio, che fece a suo tempo Nicholas Kaldor sulla presunta sostenibilità dell’area valutaria europea intesa come “spinta” anticipatrice verso una futura integrazione politica. L’economista ungherese rimane tuttora uno dei più rilevanti interpreti dello scibile macroeconomico del secondo 900.

Buona lettura

http://keynesblog.com/2015/03/26/varoufakis-ecco-il-mio-piano-merkel/

Lafayette

[1] Robert A. Mundell The Theory of Optimum Currency Areas” American Economic Review 51 settembre 1961, pp 717- 725

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