Articolo scritto da Franco Gavio
In Europa da tempo si continua a iniettare liquidità nel sistema finanziario, mediante ogni forma di stimolo (LTRO, QE ecc.) per sostenere i contraccolpi di qualche eventuale responso elettorale sgradito all’ordine politico dominante contro cui si possa mettere in dubbio la futura permanenza di uno Stato guida nell’Euro (prossimamente la Francia).
Le intenzioni sarebbero “nobili”, ovvero quelle di produrre moneta, creando “riserve” nel circuito delle banche commerciali, ma gli effetti di tale operazione sono senz’altro più “prosaici”, in quanto tale massa di denaro difficilmente fluisce verso l’economia reale “istituendo un deposito” con la finalità di stimolare gli investimenti o l’innovazione.
Per converso, essendo la liquidità facilmente fruibile, incoraggia gli operatori di borsa o le banche stesse a riversarla nel circolo finanziario a scopo meramente speculativo.
Ci si chiede fin quando potrà continuare questo “gioco” monetario che riduce al minimo i rendimenti dei titoli di stato (se non in alcuni casi negativi, Bund tedeschi) dell’eurozona?
E poi, quando si dovrà procedere verso una “normalizzazione” cosa succederà?
Parallelamente, negli USA la FED, a partire dal 2016, ha rinunciato ad applicare l’aumento progressivo dei tassi, smentendo le sue precedenti affermazioni espresse dopo l’uscita dal QE, per timore d’innescare una crisi valutaria nei paesi emergenti, nonché per scongiurare una drastica penalizzazione dell’export americano (dollaro forte).
Agendo in questo modo entrambe le Banche Centrali stanno alimentando senza sosta il formarsi di una bolla di proporzioni preoccupanti, sia nel comparto azionario (500S&P) sia in quello obbligazionario (titoli di stato e corporate bond), i cui prezzi sono oramai fuori controllo (P/E).
Se pensiamo alla situazione debitoria internazionale gravemente compromessa in America Latina (Brasile) e nel Sud-Est asiatico (Cina 230% debito su PIL – stima approssimata del The Economist) e se a ciò si aggiunge l’effetto “leva” di alcuni strumenti ancora scarsamente regolati, basterebbe uno sternuto nella più remota parte del mondo per scatenare una tempesta finanziaria devastante e incontrollabile.
Si ha l’impressione che i tre governatori delle Banche Centrali – per altro autorità non legittimate dalla sovranità popolare – (FED, BCE, BOJ) stiano danzando pericolosamente su una corda tesa sull’abisso con l’unico scopo di difendere ad ogni costo i due cardini su cui si aggancia l’attuale ordine neoliberista (globalizzazione e libero mercato).
Non si tratta di essere nostalgici del Bancor, tuttavia ci si chiede se in questi ultimi due decenni, anziché correre a “rotta di collo” o cullarsi nella autoassolvente “great moderation” di L. Summers, o nella arrendevole tesi del “global saving glut” (l’orda del risparmio globale) di B. Bernanke, avessimo posto sul tavolo sin dal calare del secolo scorso, in occasione delle grandi assisi internazionali (G 7, ecc.), l’annosa questione su come stendere un sistema di regole condivisibili globali, probabilmente da qualche tempo questo ordinamento sarebbe già in funzione, il cui effetto si sarebbe tradotto nell’attenuare la crescente disuguaglianza in occidente e nel contempo avrebbe indotto i paesi emergenti a introdurre garanzie e diritti senza compromettere la loro crescita.
Questo obiettivo non poteva essere altro che prioritario per i “grandi” di questa terra e soprattutto lungimirante per chi tra questi si fosse professato liberale progressista o socialdemocratico.
Purtroppo, tale progetto non è stato mai preso seriamente in esame.
Il binomio Obama/Clinton, troppo impegnato nella “esportazione” dei valori democratici (rivoluzioni arabe), non avrebbe mai potuto avanzare un disegno di tale consistenza, poiché questo collideva con le munifiche donazioni delle merchant bank statunitensi – istituzioni assai aliene a qualsiasi forma di regolamentazione – aventi lo scopo di garantirsi le proprie rielezioni.
L’establishment “liberal” a stelle strisce si dispiegò esclusivamente nell’ossessionare Cina e India sul problema del riscaldamento terracqueo.
Ciò diede loro lustro nel mostrarsi di fronte all’opinione pubblica mondiale come i paladini dell’ambiente (argomento assai apprezzato da una certa sinistra post materialista), senza nella fattispecie dover procurare alcun nocumento nei confronti dei potenti di Wall Street, (il principale sponsor delle campagne elettorali), salvo un semplice trasferimento di capitali: dalla conservativa “big oil economy” alla luccicante “green economy”.
La socialdemocrazia europea – dal “bugiardo” Blair in poi – si è confortevolmente assiepata alla benevolenza del capitale confidando in una magica quanto illusoria ridistribuzione dei profitti che si sarebbe, secondo la sua strampalata tesi, attuata mediante la taumaturgica opera del mercato.
Anziché progettare ed insistere per una grande riforma dell’ordine internazionale (fiscalità e diritti), come già suggerì JM Keynes a Bretton Woods nel 44, questa perseverò nel martellare alcune comunità nazionali occidentali affinché riformassero le loro obsolete istituzioni democratiche in modo da “economicizzarle” al dettato neoliberista o ordoliberista per gustare in tal modo la “dolcezza” della salvaguardia europea e il plauso delle istituzione economiche internazionali (FMI).
Ora, dopo tutti questi “fruttuosi” suggerimenti perpetrati nel corso di due decenni, per altro in parte trasformati in legge alla chetichella da alcuni parlamenti, tra cui il nostro (fiscal compact e pareggio di bilancio), Trump varca la soglia della White House e La Le Pen bussa al portone dell’Eliseo e noi cittadini del mezzogiorno continentale ci appelliamo a Draghi per non finire in bancarotta.
Nel corso degli avvenimenti citati, buona parte della pletora socialdemocratica europea e del Democratic Party Americano è diventata sempre più oggetto di scherno da parte degli umili, dei giovani precari, della sfilacciata classe operaia, ossia di coloro che per un secolo sono stati i ceti e i gruppi di riferimento delle formazione politiche progressiste europee e americane che, nel corso del 900, grazie al sostegno popolare e al prezzo di dure lotte, hanno estorto al capitale diritti sociali, individuali e collettivi.
Si palesa oramai da parte della stragrande maggioranza dei governati la sensazione di essere stati traditi, abbandonati al proprio destino.
Non ci dovrebbe stupire se dagli “sbeffeggiati” prendano sempre più corpo comportamenti rancorosi, pari alle contumelie e le ingiurie che i menscevici e i bolscevici riversarono ai riformisti borghesi cadetti russi all’alba della rivoluzione d’ottobre.
Qualora vi dovesse capitare di rileggere le pagine vergate da alcuni autori del nostro pantheon socialista, repubblicano o libertario del 900, George Orwell e Gaetano Salvemini – li cito di proposito essendo entrambi anticomunisti – trovereste un mondo completamente rovesciato rispetto a quello in cui gli attuali depositari di tale fede hanno operato fino a tutt’oggi.
E’ singolare, ma altrettanto comprensibile, che buona parte dei millenians anglosassoni abbiano affidato le loro speranze non ai loro novelli rappresentanti di pari età ma a personaggi ormai settantenni, tenuti opportunamente ai margini dagli anni 90 in poi dall’élite democrats e labourista dominante per la loro imperitura colposa “sinistrosità”.
Si fa riferimento nel caso specifico all’inglese Jeremy Corbyn (rieletto con una valanga di voti nell’ultimo contest), agli americani Bernie Sanders (che per poco non ha tolto alla Clinton la nomination) e al politologo Robert Reich, il quale raccoglie centinaia di migliaia di visualizzazione quotidiane nei suoi brevi comizi sui social network.
Questi giovani – la cui fascia d’età va dai 16 ai 30 anni – ha riscoperto nella politica i valori dell’integrità morale, della onestà intellettuale e della giustizia sociale attraverso la mediazione di questi personaggi.
Infatti, essi hanno punito severamente i vari portatori d’interessi dell’establishment democratico anglosassone giudicato a parer loro corrotto e autoreferenziale, non votando la Clinton e annichilendo politici della caratura di Tony Blair e Gordon Brown.
Infine, riprendendo la tematica del primo capoverso di questo breve post, sarebbe opportuno che si ricordassero i tre teoremi sulla instabilità finanziaria del compianto Hyman Minsky, i quali furono già empiricamente testati nella crisi scoppiata nel 2008.
Non è possibile sapere se ci troviamo nella seconda (unstable system) o terza fase (Ponzi scheme).
Forse, più probabile nell’ultima considerati gli enormi “buy back” (acquisto di azione proprie) avvenuti da qualche anno dalle grandi corporations americane.
Qualora si profilasse un secondo “black swan” (cigno nero), i principi di rappresentanza su cui si fondano le nostre democrazie occidentali d’ispirazione liberale, nei quali la classe media ha vissuto la propria vita e mediante i quali ha goduto di molteplici garanzie e libertà, potrebbero essere messi in discussione dal subitaneo insorgere di cesarismi autocratici di destra o in alternativa da raffazzonati “web-soviet” pentastellati di sinistra.
Ovviamente, ci si auspica il contrario sebbene, leggendo la stampa internazionale di settore, tale scenario non sia del tutto da escludere.
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