(da http://keynesblog.com/ )-
“Free to Choose” di Milton e Rose Friedman è stato un programma televisivo e un libro che ha rivoluzionato il modo di vedere l’economia degli americani e, per riflesso, degli occidentali. Il più potente, pervasivo e affascinante manifesto liberista del secolo. Un’opera che ha profondamente influenzato tanto il senso comune del cittadino medio, quanto la politica, e che ha avuto probabilmente un peso nell’affermazione elettorale di Ronald Reagan.
A parlarne in termini critici è Brad DeLong, sul sito Project Syndicate. Secondo DeLong, il ragionamento di Friedman si muove a partire da tre affermazioni.
La prima è che gli squilibri macroeconomici sono causati dall’intervento pubblico, non dal mercato. In particolare sarebbero causati proprio da quegli interventi pubblici che tendono a regolare i mercati e a cercare di rendere il capitalismo più stabile.
Secondo Friedman è il settore pubblico ad aver “causato” la Grande Depressione. Per risolverla l’intervento delle autorità avrebbe dovuto limitarsi a una politica monetaria espansiva. L’intervento nell’economia rivendicato da Keynesiani e seguaci di Minsky al fine, rispettivamente, di gestire la domanda e stabilizzare i mercati finanziari, sarebbe completamente ingiustificato.
Ma, fa notare DeLong, questa affermazione è semplicemente sbagliata. La dimostrazione sta nel fatto che l’enorme aumento di liquidità operato dalla Federal Reserve non è stato sufficiente a ripristinare la piena occupazione o comunque far uscire gli USA dalle secche della recessione.
La seconda affermazione dei coniugi Friedman è che il ruolo pubblico nella regolazione dovrebbe essere minimo, limitandosi alla garanzia dei contratti in quanto gli svantaggi di un intervento regolatorio più pesante sarebbero maggiori che quelli di un mercato lasciato quasi a se stesso. Ma, scrive DeLong, neppure gli attuali “libertarians” (la destra del partito repubblicano) hanno una grande fiducia nelle corti federali, forse perché condannano troppo facilmente chi attenta alla salute.
La terza, e più importante, affermazione dei Friedman è che l’economia di mercato, da sola, sarebbe capace di ridistribuire in modo equo il reddito, poiché gli imprenditori, pur guidati dal profitto, premierebbero i talenti, potenziando l’intero sistema economico. Un ragionamento che riprende quello della “mano invisibile” di Smith.
Peccato però che non abbia funzionato, spiega DeLong. La caduta di qualità dell’istruzione, il ridimensionamento dei sindacati, il sorgere di una economia dell’età dell’informazione dove “il vincitore prende tutto”, il ritorno alla finanza come ai tempi della “Gilded Age” (1860-1896, con conseguente tracollo), hanno portato ad un’inedita disparità dei redditi.
Sarebbe stato bello se un’era di prosperità durevole, con opportunità per tutti, fosse seguita ad un intervento pubblico ultraminimale sul modello di quello prefigurato da Friedman. Se non è successo, conclude DeLong parafrasando Keynes, è semplicemente perché il mondo descritto da Friedman non esiste, non è quello in cui davvero viviamo.
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