(by Lafayette)-
Il noto opinionista economico inglese Paul Mason scrive sul The Guardian alcune verità cui – secondo la versione dell’establishment economico internazionale, e benché tutti ne siano a conoscenza – è meglio che non si mettano in luce al fine di creare “inutili allarmismi” sul mercato finanziario. Purtroppo, per la miopia di molti osservatori, consapevoli o meno del loro difetto, i dati economici che lui sciorina nell’articolo sono reali e quindi, nel rispetto delle passate verifiche empiriche, non si escluderebbero come probabili indicatori di un nuovo collasso finanziario. Scrive Mason:
“Molti indicatori nella finanza globale sono rivolti verso il basso e alcuni addirittura pensano che il crollo sia già iniziato. Cerchiamo di mettere insieme le prove. In primo luogo, ciò riguarda l’insostenibilità del debito. Dal 2007, il cumulo debitorio nel mondo è cresciuto di 57 trilioni di $ (£ 37 tn). Questo è un tasso di crescita annuo composto del 5,3%, battendo in modo significativo il PIL. I debiti sono raddoppiati nei cosiddetti mercati emergenti, mentre la crescita nel mondo sviluppato è di poco più di un terzo.
John Maynard Keynes una volta scrisse che il denaro è un “collegamento al futuro”. Questo significa che ciò che facciamo con i soldi è un segnale di ciò che pensiamo che succederà domani. Quello che abbiamo fatto con il credito dopo la crisi globale del 2008 fu d’espanderlo più rapidamente dell’economia. Questa operazione si può fare solo in modo razionale, nel caso in cui si pensi che il futuro sia molto più ricco di quello attuale.
Questa estate, la Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS) mise in guardia sul fatto che alcune economie importanti stavano accusando un forte aumento del rapporto debito-PIL, ben al di là delle proporzioni storiche. In Cina, nel resto dell’Asia e nel Brasile, l’indebitamento del settore privato è aumentato così rapidamente che il pannello di controllo del rischio della BIS fa lampeggiare il rosso. In due terzi dei casi, gli avvertimenti ”rossi”, come in questo caso, sono seguiti entro tre anni da una grave crisi bancaria.
Ora, diamo un’occhiata ai prezzi dei beni reali. Il primo a crollare fu il petrolio: dalla metà del 2014 passò dai 110 $ al barile ai $ 49 attuali, nonostante vi sia stato nell’interim un leggero aumento. Poi, vennero le materie prime. Il rame costava $ 4,50 alla libbra nel 2011, esattamente la metà del suo valore di mercato a settembre. L’inflazione nei paesi del G7 è appena sopra lo zero, e la deflazione sta perseguitando il sud della zona euro. Secondo l’indice del governo olandese i volumi del commercio mondiale si sono concretamente contratti dal dicembre 2014, mentre il valore del commercio mondiale di materie prime, che ha segnava 150 punti nello stesso indice di un anno fa, è attualmente pari a 114. In queste circostanze, l’unico modo in cui una tale ampia espansione del credito può fornire un segnale preciso per il futuro ci induce pensare che stiamo per passare attraverso un boom di produttività spettacolare. La tecnologia è lì per farlo, ma il quadro sociale non lo è. ……… La Cina – il motore della ripresa globale post-2009 – sta rallentando notevolmente. Il Giappone ha appena rivisto le sue previsioni di crescita verso il basso, pur essendo nel bel mezzo di un massiccio programma di “tiratura” di denaro. L’eurozona è stagnante. Negli Stati Uniti, la crescita, che si riprese bene nel corso del QE, ha vacillato dopo la sua cessazione.”[1]
Mentre Mason si limita a prendere atto dell’attuale negativo scenario economico internazionale, l’economista statunitense Hyman Minsky, spesso ingiustamente dimenticato, teorizzò la tesi secondo cui, in un sistema in cui vige la libera circolazione dei capitali senza regole condivise, sono da reputare ricorrenti le catastrofi finanziarie.
Paul Krugman nel suo illuminante saggio sulla New York Review of Books “Why Weren’t Alarm Bells Ringing?”[2] ripete più volte la parola “complacency” (compiacenza), quasi a rimarcare che la crisi del 2008 fu dovuta per la totale assenza di spirito critico da parte di economisti, intellettuali ed opinionisti vari nei confronti degli evidenti limiti dell’imperante dettato neoliberista. Ben Bernanke, l’ex Chairman della FED, in un faccia a faccia con gli studenti di Princeton[3], sebbene illustri quanto fosse stato necessario in una situazione eccezionalmente drammatica il varo del QE, evita attentamente di considerare questa operazione di tipo non-convenzionale la panacea risolutrice di tutti mali. Paul Mason nel suo articolo rincara la dose:
“La causa di questo eccesso di debito riguarda circa 12 trilioni di dollari di denaro gratuito o a buon mercato creato dalle banche centrali dal 2009, in combinazione con i tassi di interesse vicino allo zero. Quando il prezzo reale del denaro è vicino allo zero, la gente prende a prestito e la preoccupazione per le conseguenze vengono demandate al futuro.”
Concorderebbe con Paul Mason Joseph Stiglitz sulla scarsa utilità di qualsiasi politica monetaria se non accompagnata da un progetto di politica economica che favorisca gli investimenti prima pubblici poi a cascata privati. Il problema non si risolve stampando moneta per favorire il processo inflattivo con pericolose ricadute verso un eccesso d’indebitamento finanziario afferma il Chief Economic Adviser di Hillary Rodham Clinton, poiché il male sta alla sua radice e precisamente nell’attuale perverso rapporto tra capitale e lavoro. Finché non si comincia a mettere in discussione la sproporzione tra l’enorme aumento della produttività (161%) e il basso incremento dei salari (19%) registrata negli USA negli ultimi 40 anni[4] non vi potrà mai essere alcuna via d’uscita, men che meno adottando politiche monetarie – sentenzia Stiglitz – in quanto il risultato di tale asimmetria non genererà altro che disuguaglianza sociale, la quale non alimenterà né investimenti né tantomeno i consumi. Siamo alle solite conclude il premio Nobel di Gary: tale differenza d’incremento tra costo del capitale finanziario (buyback) rispetto a quello del lavoro premia solo il settore finanziario a svantaggio degli investimenti nell’economia reale.
Ma per Paul Mason questa condizione è necessaria ma non sufficiente per causare ciò che lui chiama “financial armageddon” . Secondo l’editorialista del The Guardian è il combinato disposto tra una fallimentare economia e una cattiva politica che incendierebbe le polveri di una crisi epocale.
“Ma ora c’è anche un evidente rischio geopolitico.
Il prezzo del petrolio è crollato perché i sauditi volevano ostacolare l’industria del fracking statunitense. In questo momento, anche se i diplomatici russi e americani partecipano comunemente alla riunione di Vienna, i loro piloti non comunicano poiché attaccano i loro nemici variamente selezionati sul terreno in Siria. L’Europa, indebolita dalla crisi greca, le cui istituzioni transfrontaliere sono nel caos a causa dalla crisi dei profughi, sembra incapace di fare qualsiasi cosa per qualcuno.
Quindi, il rischio più grande per il mondo, nonostante la sua gravità crescente, non è lo sgonfiamento di una bolla. E’ il rischio che questa diventi intrecciata con la geopolitica. Ogni politico che minimizza o ignora questo rischio sta facendo quello che i miopi economisti hanno fatto nel periodo fino al 2008.”
Il solito “gufo”? Si direbbe. Meglio essere “gufi” che “barbagianni” commenterebbe sarcasticamente Paul Krugman.
[1]http://www.theguardian.com/commentisfree/2015/nov/01/financial-armageddon-crash-warning-signs#_=_
[2] https://democraticieriformisti.wordpress.com/2014/10/12/perche-i-campanelli-dallarme-non-suonarono-paul-krugman-recensisce-martin-wolf/
[3] The Federal Reserve and the Financial Crisis, 2013 by Princeton University Press
[4] Rewriting the Rules of the American Economy, Roosevelt Institute
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