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Più industria = più crescita. Più crescita = più occupazione

28 Gennaio 2013 by Redazione Lascia un commento

Posted by keynesblog on 25 gennaio 2013 in Economia, Europa, Global

Dagli anni ’70 uno tsunami si è abbattuto sulle vecchie certezze della scienza economica. Ma è soprattutto negli anni ’90 che i luoghi comuni del neoliberismo hanno definitivamente vinto, piegando gli ultimi riottosi e i progressisti al di là e al di qua dell’Atlantico. Tra questi luoghi comuni due hanno influenzato pesantemente le politiche economiche in Europa e negli USA: la presunta ineluttabile “fine del manifatturiero” (e quindi l’esclusiva attenzione all’ “economia dei servizi”) e l’idea della “crescita senza occupazione” a causa dell’innovazione tecnologica e del suddetto passaggio all’economia dei servizi.

Non tutti i ragionamenti dietro queste proposizioni sono infondati, eppure i fatti più recenti ci costringono a ritornare ai vecchi convincimenti. Ci aiuta a farlo Matias Vernengo con due post [1] [2] sul suo blog Naked Keynesianism.

1. Più industria, più crescita

Nicholas Kaldor negli anni ’60 enunciò alcune “leggi” dell’economia che portano il suo nome. Secondo Kaldor vi è una correlazione positiva tra la crescita del settore manifatturiero e quella di un economia in generale. Se vi sembra qualcosa di vecchio e superato, allora basta guardare questo grafico che rappresenta la distribuzione dell’industria manifatturiera dal 1700 ad oggi.

Concentrandosi sulla seconda parte del ’900 e sugli anni 2000 balza subito all’occhio come vi sia un evidente spostamento verso la Cina e l’Est Asia. In effetti il Giappone, fino a 20 anni fa (quando è caduto nella trappola delle bolle finanziarie) e ora la Cina, sono i paesi che hanno goduto delle migliori performance economiche. Viceversa è impressionante il declino del Regno Unito ed evidenti gli effetti del crollo dell’URSS. Bene l’Europa pre-2006, grazie soprattutto all’industria tedesca. Come stiano andando le cose negli ultimi anni è cronaca di tutti i giorni.

Se si vuole crescere, insomma, l’industria manifatturiera è ancora un settore fondamentale. Deve aver pensato anche a questo Barak Obama quando ha salvato il settore auto da una morte pressoché certa e chiesto a Steve Jobs di tornare a produrre apparecchi elettronici negli Stati Uniti.

Mentre i salari cinesi crescono a ritmi inimmaginabili in Occidente e lo Yuan diventa progressivamente una moneta forte, gli Americani hanno compiuto alcune scelte strategiche necessarie per ritornare a crescere, pur con ritardi e in modo parziale e contraddittorio. E l’ascesa del manifatturiero negli USA o, come significativamente dicono gli Americani “far ritornare il lavoro a casa”, è ormai una realtà.

2. Più crescita, più occupazione

Un altro vecchio convincimento della teoria economica è lo stretto rapporto tra occupazione e crescita. Empiricamente esso prende il nome di “Legge di Okun”. Negli ultimi decenni alcune caratteristiche di questa correlazione sono state messe in discussione, al punto che si è parlato, come dicevamo, di “crescita senza occupazione” e si è andati all’affannosa ricerca delle cause della rottura di questo rapporto.

Le cose però sembrano stare in modo differente e più aderente alle vecchie idee. Un recente working paper del FMI [link] analizza i periodi di crescita e recessione nei paesi più industrializzati e arriva a concludere che quella tra crescita e occupazione è “una relazione forte e stabile nella maggior parte dei paesi anche dopo la Grande Recessione [2008-2009]e le affermazioni circa una sua rottura sono errate”. Il risultato empirico parla di un punto di disoccupazione in meno ogni due punti di crescita economica. Approssimativamente tale rapporto è comune a tutti i paesi industrializzati. Non solo: secondo i ricercatori del FMI l’idea della rottura tra crescita e occupazione ha avuto successo semplicemente perché dagli anni ’90 la crescita è stata lenta e con essa il riassorbimento della disoccupazione dopo le recessioni

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