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QUANDO SI ESAGERA CON I MITI SUL PUBBLICO IMPIEGO

8 Gennaio 2016 by Redazione Lascia un commento

(di Claudio Braggio- da claudiobraggio.wordpress.com)-

I lavoratori del pubblico da sempre sono l’obiettivo preferito da quanti hanno voglia di scatenar polemiche.
Il contratto è congelato da oltre cinque anni e non si capisce per quanto tempo ancora lo sarà, procurando non soltanto nocumento ai lavoratori, ma anche una vera e propria aberrazione dalla legalità.
Per tenere la spesa sotto controllo occorre compiere alcuni grandi sacrifici, ma la condivisione dei sacrifici viene sommariamente imposta come mera bizzarria politica, con l’infatuazione di chi vede nei tagli di spesa e fors’anche di personale una soluzione.
Anzi una soluzione qualunque, operata a casaccio.
Sono dunque i lavoratori del pubblico impiego i diretti responsabili dell’arrancare dell’economia come pure dei bilanci redatti allegramente o addirittura artefatti (nel senso di fatti ad arte, ovviamente)?
Per ottenere risposte adeguate occorre rinunciare a malintesi e luoghi comuni, spesso diffusi senza reale riscontro di fonti o focalizzandosi su taluni facinorosi che dovunque li collochi sempre gli stessi pasticci compiono.
I dipendenti pubblici ricevono stipendi inferiori, a parità di mansioni e responsabilità, rispetto a quelli del settore privato
Tanto in Italia, quanto all’estero: basti pensare che negli Stati Uniti il salario medio di un dipendente federale è più basso del 24 cento nei confronti di un pari livello del privato.
Si rimarca che pressoché eguale divario sussiste fra le retribuzioni dei lavoratori pubblici italiani e quelle dei colleghi europei.
Inoltre la retribuzione di un dipendente pubblico è obbligata da parametri rigidi e non esiste un sistema retributivo abbastanza flessibile per reclutare i migliori talenti e pagarli in base al mercato, come avviene nel privato.
La forza lavoro a disposizione del settore pubblico non è immensa, anzi nel corso degli ultimi dieci è andata sensibilmente diminuendo creando gravi scompensi.
Prodromi di futuri disagi.
Non è stata ancora neppure considerata una riorganizzazione dei comparti di pubblico servizio, essendo l’ultima riforma strutturale ormai data dalla metà degli anni Venti del Secolo scorso, in tempi politicamente sospetti.
I lavoratori del pubblico impiego incompetenti non possono essere licenziati, ma quelli che compiono reati non dovrebbero neppure permanere.
Inoltre i dirigenti possono stazionare anche per alcuni decenni non soltanto nella stessa Amministrazione, ma addirittura con lo stesso incarico.
Tuttavia non si affronta seriamente la questione del miglior impiego delle risorse, che dovrebbe avere quale punto di attacco il curriculum vitae (attività interne, ma anche esterne) e le motivazioni del dipendente, mentre più facilmente ci si avvita a tortiglione unicamente sul concorso pubblico (ormai desueto).
Con atteggiamento bizzarro, si diffonde la falsa credenza che le scelte di bloccare stipendi, progressioni, assunzioni sia un buon modo per ripristinare la virtuosità della spesa pubblica, senza rendersi conto della differenza di obiettivi esistente tra il settore privato e quello pubblico.
Nel primo caso vale l’incremento produttivo.
Nel secondo lo scopo da raggiungere è quello dell’erogazione a costo zero o comunque fuori mercato di servizi ed assistenze, possibilmente con rivalutazione costante della qualità.
La vera questione non è quello che possiamo tagliare, ma come possiamo meglio risparmiare denaro ovvero ridistribuirlo per ottenere il massimo rendimento.
Impossibile ottenere o anche soltanto avvicinarsi al pareggio di bilancio semplicemente tagliando personale, stipendi, risorse materiali e no a disposizione pur indispensabili per ottenere risultati ed erogare servizi, tanto nel pubblico quanto nel privato naturalmente.
Il tema non esplorato è quello dell’orgoglio di servire (rendersi utili), inteso come motivazione nei confronti della cittadinanza e per i reali interessi della nazione, articolando azioni, capacità e predisposizioni naturali a questo scopo, indipendentemente dall’appartenenza familiare o di partito.
Parole e pensieri che tuttavia gesti non hanno sufficiente forza per modificare le dinamiche della politica, considerata nella sua meno nobile accezione di forma di gestione del governo, che talvolta nasce in forza della rappresentanza e tende sempre a trasformarsi in sostituzione.
In linea generale, chi lavora nel pubblico impiego è bene che contribuisca direttamente ad una missione più ampia a beneficio generale offrendo, anzi mettendo in condivisione riflessioni approfondite ed opinioni al fine di meglio motivare la forza lavoro e render più agile e produttivo l’impegno di tutti i dipendenti.
Un ruolo in cui più attivamente dovrebbe confrontarsi in modo armonioso il Sindacato, inteso nella sua complessità che va dall’orientamento culturale delle organizzazioni confederali alla specificità dei contratti di categoria.
L’impegno e l’esecuzione quotidiana dei compiti assolti dai lavoratori del pubblico impiego hanno un ruolo fondamentale per il miglioramento dell’organizzazione del servizio pubblico.
Per sostenere tanto le attività, quanto i doveri individuali che insieme s’intrecciano, occorrono una struttura organizzativa adeguata, stipendi dignitosi e strumenti di buona qualità.
Al fine di adempiere con successo ogni missione, occorrono professionalità, passione e impegno che l’attuale visione organizzativa del sistema pubblico, piramidale e verticale, pressoché totalmente adagiato sull’originaria e semplicistica struttura militare, rende sempre più difficile.
Anzi improbabile.
Anzi incredibile.
Per tendere davvero ad un rapido cambiamento, la struttura deve tener in debito conto flussi di attività orizzontali oppure a processi, lasciando stare le unità funzionali, che hanno confini rigidi.
Molto utile è dare spazio alle strutture organizzative progettate per l’apprendimento continuo, offrendo un continuo arricchimento dei ruoli, perché in un ambiente in rapido cambiamento la struttura formale e di controllo esercitato sui dipendenti nello svolgimento del proprio lavoro è un freno inutile.
Nelle organizzazioni antiche per compito s’intende un’attività lavorativa definita con precisione e assegnata ad una persona, mentre la conoscenza e il controllo del compito sono centralizzati a vertici dell’organizzazione (vedi le organizzazioni militari e similari).
I dipendenti dovrebbero fare esattamente ciò che viene loro richiesto, insomma.
Invece, se a ciascuno si assegnasse un ruolo, si potrebbe dar vita ad un sistema sociale, una rete relazionale attiva, caratterizzata da discrezionalità e responsabilità, capace di stimolare le persone all’uso del proprio giudizio e delle proprie abilità per ottenere un risultato comune o raggiungere un obiettivo, personale e generale.
I dipendenti dovrebbero essere incoraggiati a risolvere problemi lavorando insieme, avvalendosi anche di apporti esterni o di strutture omologhe.
Potrebbero così agire in modo efficace, perché ricoprendo un ruoli all’interno di una squadra, in modo flessibile, non ci sarebbero ostacoli alla conoscenza e il controllo dei compiti sarebbero felicemente attribuiti ai lavoratori piuttosto che a supervisori o ad alti dirigenti.
Ai controllo formali è pur sempre meglio la condivisione delle informazioni, con attenzione anche a quella interna (di solito informale e diretta), intesa sia nella struttura di riferimento sia con le strutture omologhe.
Nelle organizzazioni più complesse, le distanze aumentano e si dovranno perciò applicare sistemi di comunicazione più formali per poter gestire la mole di informazioni e segnalare le deviazioni da procedure e obiettivi stabiliti.
Nelle strutture organizzative orizzontali le azioni di una forza lavoro dotata di informazioni e potere decisionale contribuiscono allo sviluppo della strategia.
I dipendenti che sono a contatto con utenti e fornitori contribuiscono in modo efficace, efficiente ed economico ad identificare bisogni e soluzioni, partecipando attivamente non soltanto al processo decisionale, ma soprattutto all’impegno di raggiungimento di efficacia dell’intera organizzazione.
Lo sviluppo culturale di un’organizzazione, pubblica o privata che sia, riesce a produrre adattamento al cambiamento se le persone che la compongono hanno maturato piena consapevolezza dell’intero sistema.
Occorre che sappiano e si rendano intimamente conto di come il flusso di lavoro sia stato generato dall’interazione dei singoli, nessuno escluso, e come abbia interagito con l’ambiente esterno all’organizzazione.
Ogni persona umana riesce a fornire un proprio valido contributo, apprezzabile nella misura delle capacità che le si consente di esprimersi, offrendo la preziosa gratificazione di rivestire un ruolo in cui sia possibile sperimentare, assumersi responsabilità, apprendere, anche commettere errori da cui comunque trarre informazioni per ottenere il meglio in seguito.
L’ottimizzazione dei costi non è un elemento positivo, perché non è risparmiando, bensì investendo sulla costruzione di relazioni che si possono e si ottengono risultati.
IMPIEGATI E SCRITTORI
Ci sono impiegati e nel contempo scrittori che riscattano senza dubbio il grigiore intellettuale in cui la gente comune vorrebbe malignamente relegare gli impiegati pubblici, offrendo invece un quadro di vivacità brillante non disgiunta da forte spirito creativo ovvero autoironia.
Ecco un elenco tutt’altro che esaustivo…
Gli impiegati comunali Paul Verlaine (1844-1896), Emilio De Marchi (1891-1901) e Heinrich Boll (1917-1985).
Gli impiegati statali (Interno/Prefettura) Carlo Lorenzini detto Collodi (1826-1891), Courteline (1858-1929), Paul Valery (1871-1945) George Orwell (1903-1950) ed anche (Ministero degli Esteri) Francois René de Chateubriand (1768-1848), Stendhal (1783-1842), Alexis de Toqueville (1805-1859), Carlo Dossi (1849-1910), Pablo Neruda (1904-1973), Octavio Paz (1914-1998).
Ancora impiegati statali (Ministero Economia e Finanze) Heinrich von Kleist (1777-1811), Gogol’ (1809-1852), Saul Bellow (1915-2005), Mario Benedetti (1920-2009), David Foster Wallace (1962-2008) e inoltre (Tribunali, Consiglio di Stato) Benjiamin Constant (1767-1830), E.T.A. Hoffmann (1776-1822), Bram Stoker (1847-1912), Ugo Betti (1892-1953), Piero Chiara (1913-1986).
Nelle dogane si ricordano Nathaniel Hawthorne (1804-1864) ed Herman Melville (1819-1891), come al mondo della scuola o delle biblioteche appartengono Stéphan Mallarmè (1842-1898), Anatole France (1844-1924), Johan August Strindberg (1849-1912), Guy de Maupassant (1850-1893), Luigi Pirandello (1867-1936), Robert Musil (1880-1942), Jorge Luis Borges (1899-1986), Samuel Beckett (1906-1989), Derek Walcott (1930), John M. Coetzee (1940) e Jean-Marie Gustave Le Clezio (1940).
Infine, credo possa affatto dispiacere una piccola digressione per citare due grandi della letteratura, che in realtà furono impiegati presso assicurazioni e in banca dove comunque la burocrazia regna sovrana, ovvero Italo Svevo (1861-1928) e Franz Kafka (1883-1924).

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