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QUELLA DEL SALARIO PROPORZIONALE È QUESTIONE VECCHIA, GIÀ FALLITA

3 Gennaio 2016 by Redazione Lascia un commento

(di Claudio Braggio- da https://claudiobraggio.wordpress.com/tag/claudio-braggio/)-

I passaggi fra quelle che vengono definite in modo del tutto artificiale le epoche storiche non sono mai repentini, così gli studiosi che vogliono analizzare un episodio o un periodo breve appongono delle semplici etichette, proprio come si fa con i barattoli nei laboratori scientifici.
Quanto viene immediatamente prima e dopo ogni pezzetto preso in esame si potrebbe definire, in senso poetico, cesura (caesura ovvero taglio) che non interrompe, bensì offre una pausa che rende fluido il ritmo, perché sennò, accidenti, non avrebbe questa connotazione.
Invece, il semplicistico pensiero popolare a cui si vantano sempre di rifarsi quanti si definiscono interpreti politici della realtà, crede che vi siano dei salti repentini ed improvvisamente, mercé la supposta velocità con cui si evolverebbe il Mondo, si passa da una condizione divenuta improvvisamente vecchia ad una vagheggiata come completamente nuova.
In tutto questo a far danni è soprattutto l’ignoranza, che s’appoggia costantemente alla cecità in merito alle vicende del passato, in una condizione che permette agli sprovveduti di far sempre scoperte incredibili, che però sono già state sperimentate e magari hanno anche fallito miseramente ogni prova.
La questione del salario proporzionale è stata oggetto di discussioni nell’Europa postbellica, intorno al 1948, senza sortire risultato alcuno.
In quel tempo, il clima politico-economico era in evoluzione con spinte produttive importanti basate sull’impegno dei lavoratori, i quali giustamente rivendicavano non soltanto il diritto a condividere i criteri di remunerazione ed il semplice aumento dei salari, ma anche la difesa del potere d’acquisto degli emolumenti ed un regime equilibrato dei tempi di lavoro.
Il mondo del lavoro di certo cambia, se non altro per effetto dell’introduzione di nuove tecnologie, ed ogni volta i depositari del capitale desiderano cambiare anche il modo di definire la retribuzione o meglio i parametri con cui viene riconosciuta ed erogata.
Vigendo il sistema democratico, emerge l’esigenza profonda che i salari sfuggano all’arbitrio e siano regolati da norme razionali e controllabili.
L’utopia che viene tramandata è sempre quella della partecipazione di ogni componente, sia esso lavoratore o dirigente o imprenditore, partecipa alla prosperità dell’impresa; anche se la relazione fra lavoratori ed impresa è improntata sui temi del conflitto e della contrattazione, che non su quello della compartecipazione.
In questa condizione, appare del tutto velleitaria ogni proposta di adeguamento culturale e organizzativo che consideri quale parametro oggettivo principale il raggiungimento di obiettivi, in luogo del vigente concetto di scambio tra prestazione esclusiva in cambio di salario in rapporto al tempo, quindi all’orario.
La flessibilità osservata da quanti concorrono alla realizzazione degli utili, materiali ed immateriali, che pure deve tener conto del rapporto fra tempi di vita e di lavoro, viene considerata a parte nel monte straordinari, dove la necessità padronale di conseguire un vantaggio s’incrocia con un supplemento d’impegno, un maggior sforzo del dipendente.
Aspetti che attengono soprattutto la contrattazione decentrata, quella vicina all’azienda o comunque all’istituzione pubblica o privata che hanno quale riferimento generale un contratto collettivo nazionale di lavoro, approvato con legge in tempi che dovrebbero esser certi ed invece sfidano, talvolta con bizzarre eccezioni, non soltanto l’illegalità, ma addirittura l’anticostituzionalità.
S’è perduta nella notte dei tempi la ragione per cui è stato istituito quella parte di salario accessorio che in principio era stato definito “premio annuale di rendimento”, che nella visione oscurantista trovava ragion d’essere in sembianze di elargizione casuale, arbitraria, mai veramente giustificata in quanto scelta di liberalità non impegnativa del datore di lavoro nei confronti di singoli dipendenti.
Un dubbioso “premio di incoraggiamento”, che allora non teneva conto della sua reale natura di ripartizione agli utili aziendali, in considerazione del necessario e economicamente positivo equilibrio fra diritti del lavoro e diritti del capitale essendo entrambi compartecipanti in egual misura allo sviluppo dell’attività, dell’erogazione dei servizi, della produzione dei beni materiali ed immateriali.
Conquiste sindacali degli anni Cinquanta, che hanno prodotto vantaggi ad entrambe le parti, ponendo al centro di ogni attenzione l’uomo, l’utilità di ciascun individuo, il progresso sociale ed economico.
C’è infine una questione tutt’altro che marginale in questa nostra contemporaneità, che i vecchi equilibri normativi tenevano in debito conto nelle applicazioni manuali; mentre oggi il capitale umano ed il capitale della conoscenza hanno assunto un ruolo centrale, che oltre ad essere condiviso, dovrebbe essere oggetto di attenzione, sviluppo e considerazione.
Tuttavia è quello in cui maggiormente si registrano falle e nelle strutture aziendali più grandi, con particolare riferimento alle istituzioni pubbliche sebbene non solo, la disattenzione sta provocando danni e le necessarie scelte organizzative vivono un pericoloso e sospetto stato di sospensione.
Se vogliamo dirla alla breve, stante l’assenza del suo valore legale tranne che nell’immaginario collettivo, il titolo di studio vivacchia troppo a lungo certificando in modo pregiudiziale conoscenze e capacità che sovente sono blande o divenute inesistenti poiché tutto ha una scadenza, proprio come il latte.
La formazione continua potrebbe essere una risposta adeguata, ma occorrono cospicui investimenti in questo settore, senza lasciarsi prendere dall’inerzia delle “attribuzioni da biglietto da visita” da finta nobiltà, in questa nostra“Italia dei laureati che non sanno scrivere. Dirimere un’ambiguità lessicale è un problema per un laureato su cinque. A dir la verità, comprendere la frase che avete appena letto è un problema per un laureato su cinque” (cito Michele Smargiassi, da Repubblica).

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