Riceviamo e pubblichiamo
Ieri scrivevo a un amico che al di là del merito della proposta (ancora confusa e soggetta a diversi veti incrociati da parte di più players), Renzi ha anche, e questo mi fa sorridere assai, spiazzato gran parte del suo elettorato, molti dirigenti (che stasera, loro malgrado, si sono accodati alla sua proposta, ma domattina sarebbero pronti a infilzarlo… ), soprattutto per aver resuscitato il Caimano.
Per buona pace di Scalfari e dell’opinione pubblica trinariciuta, il ragazzo con forte piglio decisionista ha capito che in politica, oltre al dover essere (che è però più compito della filosofia) conta agire e fare i conti con la realtà, questo penso valga non solo in economia, ma anche nella costruzione delle regole del gioco democratico. Per dirla con Bobbio, la democrazia (in senso procedurale) è un sistema di regole (norme) per governare un gioco competitivo tra attori diversi con obiettivi e interessi simili o, spesso, differenti. E ancora Bobbio sempre nel suo “Futuro della Democrazia”, ritiene che il presupposto di tale regime sia un accordo (il patto) sulle regole per poi manifestare un eventuale disaccordo (conflitto) sulle politiche pubbliche.
Io sono, quindi, a favore dell’incontro di sabato e spero che i due principali attori (PD e FI) non cerchino via via incentivi alla exit dal gioco, anche se uscire adesso potrebbe comportare per entrambi un costo eccessivo di reputazione, credibilità, affidabilità and so on….
Del resto che cosa ci si poteva aspettare? La pazienza di Napolitano credo avesse un limite. Il Presidente, nonostante non abbia una grande simpatia per Renzi, deve aver preso atto che dall’attuale Governo (e dal duo Letta-Alfano) non si cavasse un ragno dal buco. E le dinamiche parlamentari sia alla Camera sia al Senato, per come sono strutturati i rapporti di forza, avrebbero portato a uno stallo sine die. Non potevamo che aspettarci una sfida ambientale, dall’esterno. Qui, francamente si è aperta una finestra di opportunità che i due furbacchioni hanno colto al volo: Renzi per far capire ai suoi e agli avversari chi comanda e per non perdere terreno, e presentarsi come colui che innova. Silvio per uscire dalla gabbia, essendo alla canna del gas, politicamente parlando. Grillo, inconcludente e disfattista, è non pervenuto, anche se ora cercherà di urlare all’inciucio e via cantando.
Ciò detto, vorrei però ridimensionare fortemente la posta in gioco rispetto alla questione delle leggi/formule elettorali. Vi invio uno stralcio di un articolo scritto nell’ormai lontano 2007. Secondo me, 7 anni dopo il ragionamento tiene ancora, ma a voi la sentenza.
Sistema elettorale e sistema partitico (2007)
“(…) A seguito del collasso del sistema politico italiano avvenuto nei primi anni ’90, diversi sono stati i tentativi per riformare la legge elettorale caratterizzata nel passato da una formula proporzionale. La riforma del sistema elettorale per l’elezione del Parlamento del 1993, nella direzione di un sistema (quasi) maggioritario a turno unico, ha favorito indubbiamente la democrazia dell’alternanza imperniata su due coalizioni (sia pur eterogenee e frammentate) in competizione. L’attuale legge elettorale per l’Assemblea parlamentare, approvata nel 2005, ha riproposto la formula proporzionale con diverse soglie di sbarramento sia alla Camera sia al Senato e con premio di maggioranza. C’è tuttavia l’incentivo alla formazione di coalizioni fra le forze partitiche. Questa spinta è favorita in particolare da due meccanismi: il premio di maggioranza e le soglie di sbarramento.
Oggi il tema della riforma della legge elettorale è tornato fortemente in agenda.
Tuttavia, rispetto alle regole elettorali c’è stata una eccessiva illusione, pensando che tutti i problemi in ordine al funzionamento del governo (capacità decisionale, efficienza, coesione della compagine governativa, rapporto con il parlamento, ecc.) e all’omogeneità politico-culturale coalizionale fossero risolti o si potessero risolvere sostanzialmente grazie alla modifica della legge elettorale.
La questione va invece oltre il sistema elettorale, riguarda la strutturazione del sistema partitico e dell’attuale assetto (bipolare o tripolare) del nostro sistema politico, in merito al comportamento strategico degli stessi partiti rispetto alle loro proposte programmatiche e alla loro strategia elettorale (posizionamento nei diversi collegi e/o circoscrizioni elettorali).
A questo punto, le domande d’obbligo sono le seguenti:
– verso quale modello di democrazia stiamo andando?
– qual è il grado di omogeneità/disomogeneità del sistema partitico italiano?
A fronte degli avvenimenti degli inizi degli anni ’90, leader politici, politologi, gran parte dell’opinione pubblica, ritenevano che lo strumento della legge elettorale dovesse in gran parte risolvere gli elementi viziosi del nostro sistema politico (soprattutto rispetto al problema della frammentazione partitica), rendendo la nostra democrazia più competitiva e funzionante (in tutte le fasi del processo di policy making), inducendo al tempo stesso gli attori partitici a costruire coalizioni coese e omogenee al proprio interno. Tuttavia i fatti dell’ultimo ventennio ci dimostrano che le cose non sono assolutamente andate in tal senso.
Le ultime due leggi elettorali per l’elezione del Parlamento in effetti costringono a formare alleanze (pre-elettorali), improbabili nel passato; di fatto assistiamo a fenomeni tipici e costanti che si sono manifestati nel corso di decenni all’interno del sistema politico italiano:
–L’eccessiva frammentazione (soprattutto in parlamento), attraverso la costituzione di gruppi parlamentari di partito e non di coalizione;
–comportamenti opportunistici dei partiti marginali che favoriscono il loro potere di ricatto e di coalizione, sono solo alcuni esempi che rispecchiano sostanzialmente le modalità di azione di un sistema democratico basato su valori e procedure da prima Repubblica rispetto all’evolversi competitivo della nostra democrazia.
Se così stanno le cose, è difficile pensare di risolvere solo attraverso lo strumento della legge elettorale un grosso problema di cultura politica che induce gli attori partitici a privilegiare marcatamente la propria identità partitica rispetto a quella coalizionale, proprio perché, date le attuali regole del gioco, nessun partito strategicamente si comporterebbe per mettere a repentaglio la propria sopravvivenza.
Proprio dall’analisi del sistema partitico per come esso è, vi è la consapevolezza che l’analisi della transizione verso un definitivo e compiuto assetto bipolare del sistema politico italiano debba concentrarsi maggiormente sul comportamento strategico dei partiti piuttosto che sull’ingegneria istituzionale.
In effetti, il problema sembrerebbe essere di natura politica, nel senso che la stabilizzazione della nostra democrazia competitiva non può essere riconducibile solo a un problema di leggi elettorali o di bilanciamento tra forme di governo e strutture parlamentari; essa dipende dalla incapacità/non volontà dei leaders di partito di risolvere la questione della frammentazione, la quale, come si evince dal confronto nelle varie legislature sulle policies proposte dai rispettivi partiti, pone seri problemi alla coesione e alla stabilità delle rispettive coalizioni.
Infatti, se è vero che tendenzialmente siamo di fronte a un pluripartitismo moderato, abbiamo comunque forme di forte radicalità all’interno di ogni coalizione con elementi anche di segmentazione.
Se allora il problema è questo, la discussione incentrata sulle diverse dimensioni della transizione italiana, dalle possibili forme di governo ai diversi sistemi elettorali, non può assolutamente prescindere dalla variabile politico-partitica, la quale condiziona la costruzione e l’organizzazione (definitiva?) del sistema politico italiano.
Lascia un commento