(di Giuseppe Civati- da http://ilgarantista.it/)-
A guardare le facce, e a sentire le parole di quelli che ieri hanno sfilato nei cortei Fiom, ma anche dei precari, degli studenti e delle categorie di solito non organizzate, non sembrava proprio che quella che in mattinata i giornali avevano presentato come una positiva mediazione, un passo avanti sul jobs act, li trovasse d’accordo ed entusiasti, anzi.
Un giudizio molto duro, il loro, e molto diverso da quella che, da ciò che si legge, sembra in via di costituzione col nome di “sinistra di governo”, schierata nel Pd con lo scopo di negoziare – ma per conto di chi? – col suo segretario e premier, Renzi. Esistono forse, quindi, due sinistre delle quali una siede in Parlamento, e l’altra ne sta fuori, e del tutto casualmente la prima trova più accettabili i provvedimenti di questo governo, mentre la seconda no? Esiste un tema, quello della divisione della sinistra, che è vecchio quanto la sinistra stessa, questo sì, ma che oggi conosce una fase differente grazie a un suo interprete nuovo: un segretario di partito e presidente del Consiglio che pur avendo vinto il congresso di un partito di centrosinistra dicendo cose tutto sommato in linea col contesto, oggi sceglie sistematicamente di attaccare tutto quel (poco) di sinistra che è rimasto nel Paese, creando una curiosa polarizzazione tra se stesso e chi l’aveva votato per metterlo lì.
È il caso dell’attacco ai sindacati, colpevoli sicuramente di molte pecche, e di non aver saputo raccogliere e rappresentare adeguatamente le nuove categorie svantaggiate, quelle che un mercato del lavoro già saccheggiato ha creato in questi venti anni. Un leader di sinistra cercherebbe la via della riforma, con quei sindacati, sceglierebbe come interlocutori le sue punte più avanzate e più libere anche dai preconcetti, e infatti così si poteva leggere l’interesse iniziale che era nato tra Renzi e Landini. Ma è durato poco, e con molta più decisione si è imboccata la strada dello scontro frontale, dell’ammiccamento anche brutale non ai ceti produttivi – non ci sarebbe niente di male e sarebbe anzi auspicabile interessarsene, in un grande partito che si propone di governare tutto il Paese – ma agli speculatori, ai portatori di interessi opachi, addirittura a chi sostiene che il diritto di sciopero andrebbe abolito.
Non c’è, in quella posizione, una critica a chi evade, a chi delocalizza, a chi sfrutta il lavoro, a chi esporta illegalmente i capitali, forte tanto quanto quella che viene posta ai sindacati. Anzi, il premier va in tivù a parlare delle “battaglie della sinistra” come se stesse parlando di qualcosa che non lo riguarda, come se lo stesse dicendo, ebbene sì, da destra. E allora qual è il punto su cui lavorare? La trattativa di palazzo, l’accordo al ribasso? A me sembra evidente che queste siano strategie perdenti, anche poco comprensibili, soprattutto se usate con un politico che tiene sempre a chiarire come ogni sua parola sia rivolta direttamente agli elettori, e facendo mostra di poco interesse, invece, per i tavoli e i conciliaboli.
No, la chiave è spostare gli elettori: che è un po’ più difficile. Ma è tra loro, tra gli elettori in buona fede e indubbiamente di sinistra che gli avevano dato fiducia – perché spaventati dal risultato elettorale del 2013, dal pasticcio fatto sull’elezione del presidente della Repubblica, dalle larghe intese, e motivate dall’argomento “perché lui vince” – che bisogna insistere perché non seguano questo governo sulla strada intrapresa. Se loro si convinceranno, e l’impressione è che in molti abbiano iniziato a farlo, allora sì, la sinistra tornerà a essere un po’ più unita.
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