(di Lafayette)-
Con questo articolo, che riassume il testo vergato da Mariana Mazzucato e divulgato dal periodico laburista inglese The New Statesman, s’intendere concludere il breve ciclo sulle fallacie e sull’asimmetria informativa in base alle quali tutto ciò che compendia il contributo del privato nella gestione del ciclo economico è da ritenersi più efficiente e produttivo comparato alla stesso disposto dall’iniziativa pubblica. Mariana Mazzucato da più di un decennio affronta la tematica dello sviluppo e della crescita economica, il suo ultimo lavoro: “Lo Stato Innovatore” edito da Laterza http://marianamazzucato.com/projects/the-entrepreneurial-state/lo-stato-innovatore/ è un testo che somma in modo organizzato una sua precedente produzione di saggi sullo stesso argomento, che in parte si possono trovare sul sito del britannico think-tank Demos http://www.demos.co.uk/, di cui credo che ella sia ancora collaboratrice. Coloro che pervicacemente si ostinino a credere che la R&D sia una determinante implicita nella filosofia che pregna il capitale privato, consiglio d’informarsi sulle conseguenze derivanti dalla pratica finanziaria del “buy back”, per altro accennata dall’autrice nei termini di “estrazione di valore”. Invece, per chi ingenuamente reputa che l’estrazione fiscale nei confronti delle multinazionali sia il “giusto” compenso per l’offerta gratuita di ricerca di base pubblica, invito alla lettura di un nostro precedente articolohttps://democraticieriformisti.wordpress.com/2013/05/27/il-carosello-dellelusione-fiscale-delle-grandi-conglomerate-internazionali/.
Buona lettura
Lafayette
Questo autunno, il Premio NS/Speri è stato assegnato a Mariana Mazzucato della Science Policy Research Unit presso l’Università del Sussex. Questo riconoscimento premia “lo studioso che è riuscito in modo più efficace nel corso degli ultimi due o tre anni a diffondere idee originali e necessarie che compendiano l’economia politica ad un vasto pubblico”. [La giuria] del premio invita [il vincitore] a tenere una conferenza. Il testo che segue è un estratto rielaborato del suo discorso.
Che cos’è che fa l’iPhone così “smart”? Era solo il genio di Steve Jobs e il suo team insieme a una finanza visionaria sostenuta da “venture capitalist” amanti del rischio? No. Nel mio libro, The Entrepreneurial State: Debunking Public v Private Sector Myths individuo la parte mancante di quella storia, analizzando le risorse pubbliche che hanno permesso di creare lo smartphone. Tutti i programmi di ricerca che hanno reso possibile Internet, il “display touch-screen”, il GPS e il controllo vocale Siri, ebbero l’appoggio del governo. Il punto non è quello di sminuire il lavoro di Jobs e del suo team, che fu essenziale e di applicazione [della ricerca di base]. Ma dobbiamo essere più equilibrati nel [valutare] il percorso storico della Apple e dei suoi fondatori, in cui non una parola è menzionata riguardo allo sforzo collettivo che ci fu dietro alla Silicon Valley. La domanda è questa: chi beneficia di una tale ridotta descrizione del processo di creazione di ricchezza nel settore hi-tech di oggi? Negli ultimi dodici mesi, la disuguaglianza è cresciuta in cima all’agenda politica e quanto sia male la disuguaglianza per la crescita lo documenta l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo. Ma il dibattito in corso è spesso concentrato solo sulla ridistribuzione.
Se i politici vogliono fare sul serio per affrontare la disuguaglianza, hanno bisogno di ripensare non solo alle aree d’intervento come l’imposta patrimoniale che Thomas Piketty chiede, ma anche in primo luogo all’accumulo di conoscenze su come generare valore e creazione di ricchezza. Quando si ha una teoria limitata su chi crea valore e ricchezza, si permette che una quota maggiore di tale valore sia acquisita da un piccolo gruppo di attori, che si fanno chiamare creatori di ricchezza. Questa è la nostra situazione attuale ed è il motivo per cui i partiti progressisti, su entrambi i lati dell’Atlantico, stanno sforzandosi per dotarci di una chiara storia su ciò che è andato storto negli ultimi decenni e su cosa fare in merito.
Cominciamo con alcune definizioni. Innanzitutto il mercato. Il lavoro pionieristico dello storico Karl Polanyi ci insegna che parlare di “intervento dello Stato” nel “libero mercato” è un errore storico. Nel suo libro del 1944 La Grande Trasformazione, Polanyi ha sostenuto che: “la strada per il mercato libero è stata aperta e mantenuta aperta da un enorme aumento continuo d’interventismo centralmente organizzato e controllato……gli amministratori dovevano essere costantemente all’erta per assicurare il libero funzionamento del sistema.”
Il ruolo attivo del settore pubblico nella formazione e la creazione di mercati è ancora più rilevante nell’attuale cosiddetta “economia della conoscenza”. La teoria economica tradizionale, che guida le politiche in tutto il mondo, giustifica l’intervento dello Stato solo per risolvere le carenze del mercato. Ma ciò che lo Stato ha fatto nei pochi paesi che sono riusciti a produrre una crescita d’innovazione diretta è stato quello di creare nuovi mercati. Settori come l’internet, la biotecnologia, la nanotecnologia e l’emergente economia verde sono stati direttamente dipendenti da una, “mission oriented” d’investimenti pubblici; la creazione di un nuovo panorama tecnologico vedeva le imprese (non solo quelle esistenti) accodarsi esclusivamente nel momento in cui queste prevedevano che i rendimenti fossero chiaramente alla loro portata. Allora, perché noi abbiamo accettato questa narrazione imparziale [sulla funzione] dello Stato, benché abbia fatto molto di più che “aggiustare” i fallimenti del mercato, come la storia dell’Apple mostra? Qual è il rapporto tra questa falsa narrativa riguardo a chi sono i veri assuntori dei rischi e alla crescente disuguaglianza? Qui, ci sono tre aree verso le quali dobbiamo rivolgerci.
Socializzare rischi e benefici
La pretesa che il governo solo spenda, regoli, amministri, e nella migliore delle ipotesi, riduca i rischi o corregga i fallimenti del mercato ci impedisce di vedere il suo ruolo come assuntore del rischio e d’investitore. Di conseguenza, il governo ha socializzato i rischi, ma non le ricompense. Alcuni economisti sostengono che la ricompensa per lo Stato passa attraverso la tassazione. Questo, in teoria, è giusto. L’innovazione e una crescita guidata [entrambe] dovrebbero portare ad un aumento delle entrate fiscali: ma non è così, se le imprese, che beneficiano maggiormente delle innovazioni, non pagano le tasse rispetto al reddito che generano. [Ciò accade] non solo a causa delle scappatoie fiscali, ma anche per la loro continua azione di lobbying per [godere] d’incentivi e tagli fiscali che dicono di aver bisogno per promuovere l’innovazione. Non è un caso che gruppi come il National Venture Capital Association alla fine del 1970 abbiano contribuito a convincere il governo degli Stati Uniti a ridurre l’imposta sulle plusvalenze del 50 % in soli cinque anni: una “politica per l’innovazione”, poi copiata dal governo di Tony Blair. (Una politica che anche Warren Buffett ha ammesso che non ha avuto alcun effetto sugli investimenti, ma ha prodotto un sacco di disuguaglianza.) Allo stesso modo, con la pretesa di promuovere l’innovazione, diversi tipi di imposte “incentivi” sono costantemente introdotti: come ad esempio il sistema della “scatola dei brevetti”, che permette praticamente alle aziende di non pagare l’imposta sugli utili generati dai beni e dai servizi brevettati. Prendendo di mira il reddito generato dai brevetti (che sono, in effetti, monopoli statali concessi per 20 anni), piuttosto che la ricerca che si conduce per conseguirli, tali misure hanno poco o nessun effetto sull’innovazione.
Più simbiotici ecosistemi d’innovazione
Condividere i rischi e i benefici richiede l’assicurazione che il settore privato s’impegni ad accrescere l’innovazione. Naturalmente, le imprese investono in ricerca e sviluppo (R & D) [Research & Development], ma l’enfasi è sempre più sulla D, sulla base di precedenti investimenti pubblici in R. Come Bill Lazonick e io abbiamo sostenuto nel nostro recente lavoro, in settori diversi come il farmaceutico, l’IT e l’energia, le grandi aziende stanno spendendo una quota crescente dei profitti per acquisti di azioni proprie, al fine d’incrementare le stock options e conseguentemente la remunerazione dei dirigenti. Le 500 aziende nella lista di Fortune hanno speso la cifra record di 3.000 miliardi di dollari negli ultimi dieci anni per acquisti di azioni: superando notevolmente la [somma impiegata] in R & D. Pertanto, una seria strategia inerente alla “scienze della vita” non dovrebbe consistere in un aumento del finanziamento pubblico sulla ricerca di base nel settore farmaceutico, ma dovrebbe coinvolgere il governo a essere abbastanza determinato nel chiedere a Big Pharma d’investire maggiormente i suoi profitti nella ricerca e nelle risorse umane indirizzandoli a supplire le carenze di competenze. Quando i paesi chiedono a Google, Apple e Amazon di pagare più tasse, questo non dovrebbe essere solo perché usano le strade e le infrastrutture pubbliche, ma anche perché una parte significativa delle tecnologie che generano i loro profitti da record è stata finanziata pubblicamente.
Sentiamo molto su come le nuove tecnologie danneggiano quelli che non hanno le competenze necessarie per l’economia moderna. Questo è il legame fondamentale tra l’innovazione e la disuguaglianza. Ma da dove vengono le competenze? Esse sono il risultato di un investimento, e oggi abbiamo una massiccia crisi d’investimenti.
Un New Deal. . . e più serio Deal
Ciò che si deve rilanciare come investimenti non è solo un nuovo accordo keynesiano, investendo settori quali le infrastrutture, ma [che includa] anche le trattative più delicate tra imprese e governo, di cui beneficiano entrambe le parti. Ad esempio, come potrebbe il sistema dei brevetti meglio riflettere il contributo pubblico-privato collettivo alle innovazioni? Negli Stati Uniti nel 1980, la legge Bayh-Dole si pose l’obiettivo di aumentare la commercializzazione della scienza, consentendo che la ricerca finanziata con fondi pubblici fosse brevettata. I legislatori erano giustamente diffidenti che questo avrebbe portato i contribuenti a sborsare due volte: la prima per la ricerca (la US National Institutes of Health spende $ 32 miliardi l’anno), e successivamente per i prezzi elevati dei farmaci. Così si suggerì che il governo ponesse un limite ai prezzi di quei farmaci che sono stati finanziati pubblicamente. Tuttavia, il governo degli Stati Uniti non ha mai esercitato tale diritto. Dobbiamo anche riformare il sistema fiscale per premiare la creazione di valore di lungo periodo rispetto alla sua estrazione, aprendo il dibattito sui rischi e benefici. Ci sono altri strumenti che potrebbero offrire un affare migliore per gli investimenti finanziati con fondi pubblici e le innovazioni? Potrebbe essere quello di mantenere una “golden share” dei brevetti, o acquisire una certo numero di azioni in aziende che ricevono nella fase iniziale un finanziamento da parte del governo, o dare alle imprese prestiti con rimborsi in rapporto al reddito generato proprio come facciamo per gli studenti.
Il mio punto non è quello di argomentare a favore o contro uno di questi meccanismi, ma quello dare voce a una discussione più ampia che inizi con la visione dello Stato come un market makere non solo alla stregua di un riparatore. Ci dovrebbe essere un riconoscimento per gli enormi rischi che questo comporta: per ogni investimento di successo del governo in settori come nel caso d’internet, ci sono errori in altri quali quello del Concorde.
Alcuni, tra cui il think tank Nesta nel Regno Unito, hanno sostenuto che gli eventuali dispositivi non basati sulle imposte dirette che consentono di trarre a favore dello Stato ricompense per la sua assunzione di rischi sono “problematici”, per cui suggeriscono che le imposte sulle società siano sufficienti. Questa difesa dello status quo, soprattutto in questi tempi di austerità, sembra insostenibile quando la posta in gioco è la capacità delle imprese di acquisire una quota sproporzionata di valore creato con l’ausilio della collettività. In un mondo di grandi numeri – così celebrato dagli appassionati dell’innovazione – sicuramente possiamo creare migliori “contratti” e offerte tra i settori del pubblico e del privato, anche se questo significa mettere una riduzione nel rapporto profitto-salario che è in aumento a livelli record.
Quindi, come possiamo cambiare la narrazione della sinistra dalla “redistribuzione” a quella che promuove la creazione di valore, nella quale entrambi i rischi e i benefici sono condivisi più equamente? Accordiamoci sul fatto che il mercato non è uno spauracchio che ci forza ad avere una visione a breve termine, ma il risultato d’interazioni e di scelte fatte da diversi tipi di attori pubblici e privati. Dobbiamo smettere di parlare del settore pubblico come curatore del rischio, bensì rendere accessibili le “partnership” e parlare di più sul tipo di assunzione di rischi a carico del pubblico, il quale ha portato a tutti le tecnologie di uso generale e le grandi trasformazioni del passato. [E’ necessario] un cambiamento del linguaggio da “partnership” generali all’impegno più dettagliato sulle tipologie di partnership il quale porterà ad una maggiore, non minore, cumulo d’investimenti privati nelle estensioni di lungo periodo, come la ricerca e lo sviluppo e la formazione del capitale umano.
Cambiare la nostra comprensione di come si crea ricchezza, e non solo come venga distribuita, è il primo passo nella costruzione di una missione d’orientamento governativo più conscia delle proprie possibilità: [è auspicabile] un Governo che corrobori l’innovazione, che costruisca il giusto tipo di “patto” con le imprese e che dia alla parola “partnership” un significato ancora vero.
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