(di Giovanni Carlini – http://leanworkspace.wordpress.com)- Certo che l’ottimismo, oggi come oggi, in Occidente, è merce rara. Qualcosa di diverso si sta vivendo in Nord America. Infatti la crisi, vista dagli Stati Uniti, è completamente diversa rispetto a quanto si vive in Europa. Laddove nel vecchio continente s’inseguono quegli annunci sulla fine del lungo periodo di stagnazione, che nessuno effettivamente vede o percepisce (meno male che esistono ancora gli ottimisti) in America ci sono gli elementi per crederci.
Gli americani sono «autorizzati» a credere a un importante rallentamento della congiuntura negativa, con assorbimento della disoccupazione, (che poi rappresenta il cuore della ripresa economica, grazie alla sua capacità di spesa) perché hanno attivato, dal marzo 2011, politiche di reshoring (rientro in patria d’imprese precedentemente de localizzate) e per la ridotta dipendenza dal petrolio importato. Sono due dati di fatto che permettono di sperare in un futuro migliore.
La stampa italiana, quella economica, in questi mesi, facendo i conti, ha affermato che l’industria automobilistica nazionale è tornata al 1958 per numero d’auto prodotte. Ragionandoci sopra, la differenza tra gli anni Cinquanta e Sessanta e oggi, non risiede solo nel mutato potere d’acquisto. Ora siamo decisamente più ricchi di tutto, a dispetto delle fredde statistiche, ma ci sentiamo anche più arrabbiati, delusi, distaccati dal sociale e poco costruttivi quando, 40 anni fa, con le pezze al sedere e in bicicletta, o alla guida di una 500 Fiat, avevamo una marcia in più: la fiducia.
È possibile uscire dalla crisi restando sfiduciati? Forse, ma non ci sono al momento esperienze tali di poter risollevare dei depressi, se non caricati con un nuovo spirito d’avventura per nuovi amori o rigenerati con diverse opportunità di lavoro o per studi e diverse esperienze di ricerca.
Tutto questo negli Usa c’è perché lo shale gas consente di “gasare” la ripresa (reale o fittizia che sia) suggerendo fiducia.
In effetti, sul piano personale, guidando a cavallo tra diversi stati, in Nord America, con entusiasmo cerco pompe di benzina per carburanti alternativi (come 3 anni fa per quella verde, d’origine vegetale, che costava appena poco meno di quella importata) ma non ne trovo! Immagino che il gas estratto sia convogliato nei metanodotti a vantaggio dell’industria.
Resta comune a tutti gli americani il mito dell’autosufficienza energetica in grado d’aprire un discorso nuovo: cosa fare con i soldi risparmiati?
Nessun commentatore politico è riuscito, sino ad ora, a inquadrare il braccio di ferro tra repubblicani e democratici al congresso, sul bilancio pubblico, anche in quest’ottica. Sta per aprirsi in chiaro un nuovo interrogativo: i miliardi di dollari risparmiati dall’import di petrolio, dove investirli? Nella sanità, scuola, case, ricostruendo il paese in un nuovo progetto urbanistico come già fu il New Deal degli anni Trenta, oppure in una nuova generazione di reattori nucleari seguendo l’esempio della Gran Bretagna di questi giorni?
Comunque sia, sarà la scelta degli americani, quando gli europei non hanno scelte, ma solo proclami. In Europa è la politica fiscale «il motore» dell’economia nel tentativo di quadrare i conti. Ovvero, farsi restituire dai cittadini quote di ricchezza eccessivamente goduta negli anni passati. È come dire: abbiamo esagerato e ora torniamo indietro.In effetti la revisione degli stili di vita, in termini più austeri è sicuramente un atto di saggezza, ma non è sufficiente per uscire dalla crisi, al massimo è appena sufficiente per gestirla. Gli americani ci insegnano, ancora una volta, che per superare un lungo periodo di stagnazione servono investimenti, energia, industria, posti di lavoro, ricerca & sviluppo, idee, aziende non vincolate dal gruppo familiare, nuova tecnologia.
Grazie America per averci ricordato l’ovvio, che in Europa si tende a dimenticare: manca la voglia e il bisogno di dare e ricevere fiducia. Wake up Europa!
La mia firma:
un sociologo economista.
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