MASSIMO CACCIARI – LASTAMPA – 07 Agosto 2023
Si cerca un mondo al servizio dell’indefinito sviluppo superando il rischio dell’imprevidibilità
umana
Rispetto alla radicalità dei problemi culturali, in senso antropologico, che pone la rivoluzione
tecnologica in atto, il dibattito cui assistiamo nel nostro Parlamento, ma anche a livello europeo, su
mercato del lavoro, nuove forme di occupazione, reddito di cittadinanza, ecc., sembra svolgersi su
un altro pianeta. Una svolta epocale viene trattata ancora una volta – come, ad esempio, per i
fenomeni migratori – a furia di confusi provvedimenti da stato di emergenza. Affrontiamo la
questione sotto il profilo più generale, e non solo per le drammatiche conseguenze che avrà
l’introduzione massiccia dell’Intelligenza artificiale a ogni livello della nostra vita, ben oltre il
formidabile effetto di riduzione del lavoro necessario. Siamo da tempo entrati in una fase che
sembra contraddire la famosa critica che il più grande logico del Novecento, Kurt Goedel, rivolgeva
al matematico che sta all’origine della rivoluzione digitale, Alan Turing. Goedel sosteneva che
qualsiasi macchina può avere soltanto un numero finito di stati fisici, a differenza della nostra mente
che è in continua e imprevedibile evoluzione. In parole povere, Goedel sosteneva che nessuna
macchina potrebbe mai essere cosciente. La coscienza non sarà mai un “artefatto”. I formidabili
progressi della tecnologia sembrano oggi contestarlo. Che importa se la macchina con cui parlo ha
un cervello fatto di carne o no – sento quel che ha da dire e vedo che parla come una persona: mi
dice di provare bisogni o desideri, scherza, ha paura, fornisce interpretazioni interessanti di opere
letterarie, scrive anche bei sonetti. Il meccanismo causale che produce tutto ciò sarà anche diverso
da quello con cui opera la mia mente, ma l’effetto è identico. E che cosa impedisce, poi, di pensare
che si possa giungere a una macchina che riproduce perfettamente la complessità neurobiologica del
cervello, e che questa possa di conseguenza evolversi in modo analogo? Il filosofo si chiede: questa
Intelligenza artificiale, che come qualsiasi ente finito va a morire, sentirà l’angoscia che noi
proviamo? Saprà di morire così come lo soffriamo noi? E si evolverà, producendo via via sempre
più complessi artifici, perché spinta dalla stessa forza che ha guidato la nostra coscienza: la
coscienza, appunto, del proprio non sapere, della propria ignoranza?
Domande certo interessanti, ma che non toccano il centro del problema. Quale significato storicoculturale complessivo esprime la formidabile tensione dell’intero sistema tecnico, produttivo,
economico verso l’Intelligenza Artificiale? Siamo certi che il fine sia quello di riprodurre macchine
dotate di capacità umane così da permettere a noi umani di non dover più soggiacere a qualsiasi
forma di lavoro coatto, meccanico, “robotico”? O si tratta piuttosto di sostituire noi umani? Qual è,
per così dire, l’idea regolativa della svolta epocale in cui siamo immersi? Giungere a una forma di
lavoro perfettamente servile. Qualunque idea ci si faccia dell’Intelligenza artificiale, abbia o no una
coscienza, a noi interessa che questa sua eventuale coscienza sia quella di uno schiavo. Il sistema
non crea Intelligenze artificiali perché siano come noi. L’uomo può essere schiavo, ma ha sempre in
potenza in sé la capacità di liberarsi e abbattere il padrone. Il sistema tende appunto a eliminare alla
radice tale possibilità, creando Intelligenze che potranno magari tutto, ma non ribellarsi. E sostituire
con esse quella massimamente pericolosa Intelligenza che si incarna nella mente o, se preferite, nel
cervello umano.
Le diverse forme di riduzionismo comportamentista, le varie apologie più o meno apparentemente
ingenue dell’Intelligenza artificiale, manifestano tutte, alla fine, questa radicale intenzione: un
mondo in cui ogni intelligenza sia al servizio dell’indefinito sviluppo del sistema, in cui lo stesso
progresso tecnologico possa essere garantito dalla evoluzione della stessa “macchina”, superando il
rischio connesso all’imprevedibilità dell’agire e dell’inventare umani. Un sistema universale di
macchine sempre più complesse, tutte insieme al lavoro, senza il disturbo che inevitabilmente crea quell’indefinibile alone di “libero arbitrio” connesso alla evoluzione della nostra mente – questa
l’idea regolativa dell’Intelligenza artificiale che i suoi profeti rappresentano. È lo schiavo il
modello, ma non lo schiavo uomo. È essenziale comprendere che il sistema funziona secondo tale
idea, e nient’affatto secondo quella di una liberazione dell’uomo da ogni forma di lavoro che non
sia espressione del proprio essere un agente libero, causa di sé. Ma per affermare questa sua volontà
di libertà dal lavoro come necessità naturale l’uomo ha assolutamente bisogno dell’Intelligenza
Artificiale. Qui starà la grande battaglia del futuro: se esisterà un’azione politica, un’intelligenza
politica capace di impadronirsi della potenza delle nuove tecnologie per la liberazione dell’umano,
o se invece si affermerà definitivamente l’idea di una mente che si riduce tutta al lavoro del sistema
delle macchine e considera quella umana, nei suoi comportamenti non “calcolabili”, un ostacolo al
pieno dispiegarsi delle “forze produttive”. E bisogna essere ciechi per non comprendere come
questa prospettiva si intrecci a quell’altra oggi al centro del dibattito scientifico: quali limiti sia
possibile definire alla ricerca sulla manipolazione genetica, alle possibilità di intervento sulla linea
germinale. L’idea di un lavoro universale al servizio del sistema, che soltanto la macchina
garantisce, non potrebbe infatti realizzarsi anche, e magari soprattutto, trasformando-manipolando
quella macchina che siamo? Fantascienza? Chiediamoci piuttosto: vi è qualcosa della fantascienza
classica che non si sia realizzato?
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