(di Lafayette)-
Se avrete la costanza di scorrere il testo dell’articolo successivo alla mia introduzione, edito dal settimanale inglese The Economist, noterete che l’autore, pur non rinunciando ai suoi principi liberisti del tutto discutibili, “apre” a sorpresa alle tesi esposte nel celeberrimo saggio di Mark Polany: “La Grande Trasformazione”. Qual è in breve il messaggio che il noto economista ungherese rivolse all’élite politica del tempo e che rimane valido ancora oggi: le decisioni in materia di politica economica non possono prescindere dal percorso storico in cui si sono formate le locali istituzioni sociali, le culture nazionali, e infine dalla “coscienza collettiva” di un popolo. Detto in altri termini sarebbe quantomeno illusorio adottare gli stessi parametri applicativi di tipo micro e macro economici tra due realtà territoriali agli antipodi come la ricca Baviera e la povera Calabria. Contestualizzata nel presente scenario Europeo tale tesi, se non venisse presa in adeguata considerazione, potrebbe dare adito a tendenze egemoniche che finirebbero per pregiudicare il futuro della stessa Unione. Al contrario, pur in assenza di un’unica direzione politica, per raggiungere un obiettivo comune, servirebbe pazienza, un progetto d’investimenti condiviso e soprattutto solidarietà verso chi sta peggio. Sebbene il The Economist si offra come “spalla” al governo italiano, questo non induce ad assolvere l’attività politica che ha svolto il nostro “Grande Timoniere” in questi ultimi due anni. Egli ha pensato, nella sua “marinettiana” idea di progresso, che bastasse un rapido “click” tecnologico per sanare secoli di nostri retaggi storico-sociali, e parimenti ha abusato del levantino gioco delle tre carte (a debito) per convincere gli “austeri” nord europei delle sue buone intenzioni. Schizofrenicamente intesa, la sua figura nel corso del suo mandato ondeggiava, a seconda delle convenienze, tra l’eroismo del Nizzardo di Caprera (stereotipo già preso a prestito da qualcun altro in passato) e l’opportunistica infingardaggine di Valentino Borgia. Due emblematici personaggi che, pur nella loro diversità, vissero tra imprese temerarie e sconfitte politiche. Nella loro incapacità di comprendere i reali obiettivi delle forze egemoniche del tempo, finirono per dileguarsi furtivamente o trascorrere la vecchiaia in un mesto isolamento. Quando Yanis Varoufakis, a prescindere dalle responsabilità dei greci, si sgolava a Bruxelles nel dire che “proseguendo su questa strada, in mancanza di una riflessione sulla disparità economica strutturale tra i vari membri, il sogno europeo sarebbe presto svanito”, il nostro Primo Ministro sgattaiolò quatto quatto tra la Merkel e Juncker per poi comparire alcuni giorni dopo accusando l’economista ellenico di radicale stupidità. Ora – citando letteralmente il The Economist – “ egli [il nostro PM] pareva che riecheggiasse i toni greci”. Non che l’Italia non necessitasse di riforme, in particolare quella sul lavoro – benché solo “flex” e priva di una fondamentale “security” – tuttavia qualsiasi rinnovamento che avesse compiuto il governo italiano non sarebbe mai stato sufficiente per soddisfare la compiacenza dell’attuale establishment tedesco il quale, anche se con mano felpata, pretende d’imporre il suo modello di sviluppo e di convivenza sociale al resto del gruppo (vedasi la loro strenua opposizione all’unione bancaria e non ultimo il “cospiring forces” di Draghi). Di questo se ne sono accorti gli inglesi (con l’eccezione del The Economist), che, già prudentemente fuori dall’euro, ora stanno discutendo di fatto di uscire anche dall’Europa. L’ex sindaco di Firenze anziché ai suoi esordi lumeggiare con compiacimento la “merkeliana” concezione dell’Europa avrebbe dovuto ascoltare le riflessioni ad alta voce di Joschka Fisher, l’ex Ministro degli esteri tedesco, il quale pubblicamente ammonì il suo popolo affermando senza mezzi termini che “se si continua così la Germania per la terza volta distruggerà l’Europa”. Forse, sin da subito un atteggiamento più cauto e distaccato volto a difendere gli interessi nazionali a discapito di quelli della UE, ossia teutonici, gli avrebbe, se non altro, procurato una maggiore comprensione da parte degli italiani riguardo al suo operato. Meno inutili smargiassate e più realismo lo avrebbero indotto a “salvare” alcune banche nostrane mediante l’utilizzo dei fondi europei prima dell’introduzione del bail-in, come fecero tutti quanti, Germania compresa, anziché farle “rapinare” dagli hedge fund d’oltreoceano verso cui oggi stiamo assistendo inermi.
Ancora più profetico di Fisher fu lo sconfitto Varoufakis, che con il suo sorriso tra l’amaro e il beffardo sibilò “prima o poi toccherà anche a voi”. Ora, che i “gufi” sorridono ai “barbagianni”, il tutto mi ricorda quella scena epica in cui Giuseppe Bottazzi, detto Peppone, a seguito di un repentino cambiamento degli eventi causati dall’astuto Don Camillo, di fronte ai suoi fidati militanti, seppur a malincuore e con voce greve, disse: “contrordine compagni!”
The Italian job
Reviving Italy’s economy will require sacrifices not just from Italians, but also from Europe
Jan 30th 2016
Perdere la Grecia o il Portogallo può essere considerata come una disgrazia; perdere l’Italia è paragonabile a una trascuratezza. E’ difficile immaginare che la moneta unica sopravviva alla resa dei conti con l’Italia, la terza più grande economia dell’euro (e l’ottava più grande del mondo, davanti al Brasile). Forse, questo spiega la recente combattività di Matteo Renzi, il Primo ministro italiano, per quanto riguarda le regole di bilancio europee. In un articolo pubblicato sul quotidiano The Guardian a metà gennaio, sembrava che riecheggiasse i toni greci, lamentando che l’Unione Europea, “con la sua fissazione per l’austerità, in realtà sta distruggendo la crescita“. Il suo ministro delle Finanze, Pier Carlo Padoan, si sta azzuffando con la Commissione Europea su come affrontare i 350 miliardi di € di crediti in sofferenza che intasano il sistema bancario italiano. Mr Renzi chiede agli eurocrati di aver pazienza, poiché si sta prodigando nel riavviare l’economia italiana che per lungo tempo è rimasta in stallo.
L’esperienza in Italia all’interno della zona euro è stata infelice. Il paese è caduto in recessione in cinque degli ultimi otto anni. Il PIL reale pro capite (cioè al netto dell’inflazione) è inferiore a quello del 1999. Il debito sovrano ha superato il 130% del PIL. Peggio ancora, l’economia in Italia è miserabilmente non competitiva. Dal 1998 la produttività è diminuita costantemente. Il costo del lavoro, tuttavia, non lo è affatto (vedi tabella). Da quando l’Italia ha aderito all’euro, le esportazioni hanno cessato di essere un motore della crescita, la cui conseguenza ha generato un rallentamento. [Questo scenario] non è qualcosa che un paese con tali preoccupanti debiti può permettersi.
Mr Renzi entrò in carica in un momento propizio, nei primi mesi del 2014. La politica fiscale e monetaria restrittiva, che aveva contribuito allo scarso rendimento della zona euro negli anni dopo la crisi finanziaria, stava diventando meno opprimente. Poco dopo, la BCE incominciò a varare il quantitative easing per far decollare la domanda interna, con effetti benefici sui tassi d’interesse italiani.
Ma il problema della competitività rimane. Non c’è una carenza di spiegazioni del crollo della produttività italiana. A causa di una regolazione punitiva nei confronti dei mercati sia del lavoro che quello dei prodotti, avviare una nuova attività è uno dei posti più costosi nel mondo ricco. Tasse e burocrazia scoraggiano fortemente le imprese produttive nel diventare molto grandi. Quasi il 70% dei lavoratori in Italia, rispetto a circa un terzo degli stessi in America, sono occupati nelle imprese con meno di 50 dipendenti. Le tasse governative sulle attività produttive sono di gran lunga le più onerose rispetto a quelle sul consumo, scoraggiando così il lavoro (e di conseguenza alimentando l’evasione). Forse la cosa più preoccupante, sta nel fatto che la quota di giovani lavoratori italiani con un titolo universitario è tra la più bassa nel mondo ricco. Poco meno del 10% di loro rappresenta la quota di italiani a elevata istruzione che vivono all’estero e che è tra le più alta nel mondo ricco.
Il rallentamento della produttività si è verificato proprio mentre l’Italia aderì alla moneta unica. Alcuni economisti vedono ciò come una coincidenza. L’euro è nato proprio mentre l’economia globale fu sottoposta al rapido contraccolpo della globalizzazione. Le piccole imprese italiane non incrementarono la propria dotazione di capitale in rapporto alla domanda proveniente dai mercati emergenti, come fece la Germania. Per lo stesso motivo, la sua popolazione sotto-qualificata, non potrebbe approfittare dell’effetto di ritorno dovuto all’aumento degli scambi di servizi professionali, così come accadde per le imprese in America e in Gran Bretagna.
Ma tali problemi erano prevedibili. Mentre molti governi della zona euro, già pronti per un mondo in cui non potevano svalutare, adottarono le riforme strutturali, l’Italia [su questo percorso] era in ritardo. Una volta che l’euro venne ufficializzato, con l’arrivo dei capitali provenienti dal Nord Europa i salari italiani sono aumentati. Le esportazioni diventarono sempre meno competitive, mentre i lavoratori e i capitali si spostarono dalla produzione ai servizi, ove la produttività era ancora più bassa.
Roma oggi è dove Hartz [la Germania] era [dieci anni fa]
Mr Renzi vuole modificare questa dinamica. Egli ha in mente qualcosa di veramente ambizioso, una revisione del mercato del lavoro non dissimile da quello promosso con le riforme radicali di Hartz fatte in Germania dieci anni fa, le quali sono state spesso considerate il ringiovanimento della sua economia. Egli ha compiuto passi in questa direzione, per esempio: l’adozione di norme che rendono più facile licenziare i lavoratori. Ma perfino i consiglieri del signor Renzi riconoscono che i progressi sono stati di una frustrante lentezza.
Il FMI stima che l’economia in Italia gestirà una crescita di poco superiore all’1% l’anno per i prossimi tre anni. Una recente analisi di economisti presso la Commissione Europea ha ritenuto che un piano di riforma veramente ambizioso potrebbe incrementare il PIL sostanzialmente di quasi il 24% rispetto alla loro previsione di base. Ma che questa crescita si materializzerebbe nel corso di mezzo secolo, con un vantaggio esiguo nel corso del primo decennio.
Invece di aspettare che la produttività risalga, un percorso più veloce per una più rapida crescita è quella di abbassare i salari. Le riforme Hartz sono riuscite in parte perché esse indussero un calo dei salari reali tedeschi. Il PIL reale pro capite salì in Germania dopo l’introduzione della moneta unica, ma la paga dei lavoratori non crebbe di conseguenza. Le riforme che decentrino la contrattazione collettiva in Italia, e che quindi aiuterebbero a contenere i salari nelle regioni e nelle imprese meno produttive, sarebbe un passo nella direzione giusta, calcola Pietro Reichlin della LUISS di Roma. In effetti, i consiglieri del signor Renzi suggeriscono che il governo può cercare d’imporre un processo di determinazione dei salari decentrati qualora le trattative tra sindacati e l’industria non giungessero a compimento.
Eppure anche i benefici della moderazione salariale potrebbero essere deludenti. Il salto competitivo della Germania si è verificato nel corso di un periodo di relativamente forte crescita globale e con un’inflazione relativamente vivace, che ha reso la soppressione dei salari reali meno dolorosa e anche meno evidente. L’Italia non godrà di tale aiuto. Qualsiasi schema di crescita che poggi sulla diminuzione dei salari è improbabile che gli italiani non facciano scontare a Renzi un caro prezzo. Per le sue riforme sul lavoro, ha bisogno di tempo che gli elettori difficilmente gli concederanno. Mantenere un’Italia relativamente felice di rimanere nella zona euro comporterà che, nel breve periodo, tragga una crescita molto più veloce da tutta l’area dell’euro nel suo insieme, favorita dalla continua benevolenza della BCE e una minor pignoleria da parte della Commissione Europea. L’accordo che Mr Padoan e la Commissione hanno raggiunto questa settimana per consentire una garanzia statale per la vendita di crediti inesigibili delle banche italiane è un passo nella giusta direzione. Se l’area dell’euro è quella di mantenere l’Italia a bordo, dovrà diventare un po’ meno austera e un po’ più italiana.
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