(The Economist UK) by francogavio
Sono sicuro che gran parte dei sostenitori del SI abbiano mal digerito l’appoggio del The Economist alla coalizione del NO in occasione del confronto referendario che si terrà qui da noi il prossimo 4 dicembre.
Ovviamente, il giudizio del settimanale economico londinese è da considerarsi “pesante”, non tanto in termini d’influenza sull’elettorato italiano (quasi nulla), quanto per ciò che esso rappresenta come simbolo del pensiero liberale nel panorama della grande stampa internazionale.
L’autorevolezza del The Economist è indiscussa e non deriva solo dal milione di copie vendute settimanalmente in tutto il mondo, ma anche dai suoi vari accurati reportage di politica, economia e cultura che coprono l’intero globo terracqueo. Non c’è cancelleria su questo pianeta che al venerdì pomeriggio non abbia sul proprio tavolo una copia del settimanale, la cui sede è al 25 di St James’s Street.
Tuttavia, se posso permettermi di stilare un giudizio sul caso in questione – essendo da circa trent’anni un abbonato al The Economist, ancor prima che lo dirigesse Bill Emmott – “l’endorsement” al NO non dovrebbe far gioire più di tanto i suoi sostenitori (me compreso), poiché non è indirizzato a corroborare il fronte del rifiuto, bensì, in coerenza con il pragmatismo britannico, a scegliere tra due mali quello minore.
Quindi, chi ha abusato del suo prestigio per propagandare le proprie ragioni del NO è in malafede. Del resto, questa pratica di optare per il “meno peggio” è stata adottata spesso dalla testata londinese.
Lo fece in occasione sia per la precedente elezione presidenziali americane Obama/Romney a favore di Obama, sia per le recenti Clinton/Trump a favore della Clinton.
Sinceramente, non mi sarei mai aspettato che il The Economist s’intrufolasse in questa spinosa vicenda tutta italiana – tenendo conto dell’esiguo spazio che correntemente dedica al nostro paese, pari a quello che viene destinato a nazioni come la Romania o il Portogallo – poiché il suo sguardo è principalmente bicefalo: (USA versus Cina/Giappone), senza trascurare la politica europea che concisamente la riassume nella trimurti Berlino, Parigi e Londra. India e Russia seguono a ruota. L’unica eccezione su di noi la fece al tempo di Bill Emmott, quando il cosiddetto “briefing”, ovvero il principale articolo d’approfondimento, fu dedicato a Silvio Berlusconi, ma non lo annovererei come una nota positiva per il nostro paese.
Detto ciò, ci si chiede qual è il motivo che ha indotto l’attuale direttrice Zanny Minton Beddoes al lancio di questo editoriale che potremmo definirlo “controcorrente” rispetto ai supposti condivisi valori “liberal” tra i sostenitori del SI e il settimanale britannico?
Credo che una delle ragioni consista nel timore più volte manifestato dal The Economist nel corso di questi ultimi due anni verso un arretramento dei valori democratici nelle istituzioni governative occidentali.
Il noto saggio pubblicato nel marzo del 2014 ne dà un’ampia testimonianza[1]. Ma non solo, si potrebbero contare a decine gli articoli in cui si ravvisa la stessa preoccupazione, anche tra quelli pubblicati più recentemente, come Putinism[2] o The New Nationalism[3]: il consolidamento di forti oligarchie in oriente mascherate da pseudo democrazie; e parallelamente in occidente una democrazia pluralista che cede il passo a una insorgenza nazional-populista incarnata da un uomo forte sorretto da una volontà popolare artatamente manipolata.
Così come nel campo della politica allo stesso modo in economia ultimamente i suoi editoriali, che prendono in esame gli effetti della globalizzazione, sono meno trionfalisti di un tempo e cominciano a manifestare risvolti “dubitativi”.
Qualcuno obietterà che su temi come la riduzione del potere conferito alla sovranità popolare si espresse già il politologo oxfordiano Colin Crouch[4] (Post-Democracy) nei primi anni del nuovo millennio e che l’economista di Harward Dani Rodrik, con l’introduzione del suo noto “trilemma” alla fine degli anni 90, affermò in un suo celebre saggio che la globalizzazione avrebbe avuto come conseguenza l’erosione dei valori democratici.
Il The Economist nel suo articolo non critica la necessità di varare le riforme nel nostro paese, anzi le auspica, ma sostiene che queste per rilanciare la stagnate società italiana debbano essere di altro tipo. Si facciano pure afferma, tranne che modificare la costituzione le cui conseguenze, per un paese ritenuto una “democrazia debole”, aggraverebbero ancora di più lo scenario attuale riducendo la libera espressione della cittadinanza e nel contempo i valori fondanti delle nostre democrazie.
Why Italy should vote no in its referendum
The country needs far-reaching reforms, just not the ones on offer – Nov 26th 2016
L’ITALIA è stata a lungo la più grande minaccia sia per la sopravvivenza della moneta unica sia per l’Unione Europea.
Il suo PIL pro-capite è rimasto fermo al livello degli ultimi anni 90. Il suo mercato del lavoro è sclerotico.
Le sue banche sono farcite con crediti inesigibili.
Lo Stato è gravato dal secondo più alto carico debitorio della zona euro, esattamente al 133% del PIL.
Se l’Italia vira verso il default, sarà troppo grande per essere salvata.
Ecco perché tanta speranza è stata riposta in Matteo Renzi, il giovane primo ministro. Egli pensa che il più grande problema di fondo in Italia sia la paralisi istituzionale, ragione per cui ha indetto un referendum il 4 dicembre finalizzato alle modifiche costituzionali, secondo cui le Regioni restituirebbero poteri [al Governo Centrale] e renderebbe il Senato subordinato alla camera bassa del parlamento, la Camera dei Deputati.
Il tutto, accompagnato da una nuova legge elettorale che mira a garantire al più grande partito la maggioranza, la quale gli conferirà la forza per far passare le riforme di cui l’Italia ha disperatamente bisogno, o almeno così [Renzi] sostiene.
Se il referendum fallisce, Mr. Renzi afferma che si dimetterà. Gli investitori, e molti governi europei, temono che un voto che premi il NO trasformerà l’Italia nel “terzo domino” di un traballante ordine internazionale, dopo la Brexit e l’elezione di Donald Trump. Tuttavia, questo giornale ritiene che la scelta del NO è il modo attraverso cui gli italiani dovrebbero votare.
La modifica costituzionale promossa da Mr. Renzi non riesce ad affrontare il problema principale, che è mancanza di volontà da parte dell’Italia a procedere verso le riforme. Gli eventuali benefici secondari sono controbilanciati da una serie di svantaggi: soprattutto vi è il rischio che, nel tentativo di fermare l’instabilità che ha dato all’Italia 65 governi dal 1945, scaturisca l’elezione di un uomo solo al comando. Questo è accaduto in un paese che ha prodotto Benito Mussolini e Silvio Berlusconi, e che è vulnerabile al populismo in modo assai preoccupante.
Certo, il peculiare sistema italiano di “bicameralismo perfetto”, in cui entrambi i rami del Parlamento hanno gli stessi identici poteri, è una ricetta paralizzante. Le leggi possono rimbalzare avanti e indietro tra i due rami per decenni.
Le riforme dovrebbero rimpicciolire il Senato, e ridurlo ad un ruolo consultivo per la maggior parte delle leggi, come accade nelle Alte Camere in Germania, Spagna e in Gran Bretagna.
Di per sé, ciò parrebbe ragionevole. Tuttavia, i dettagli del progetto di Mr. Renzi violano i principi democratici.
Per cominciare, il Senato non sarebbe eletto. Al contrario, la maggior parte dei suoi membri sarebbero cooptati dalle assemblee regionali e locali. Regioni e Comuni sono gli apparati più corrotti del governo, e i senatori godrebbero dell’immunità da ogni procedimento penale. Questo potrebbe fare del Senato una calamita per i politici italiani più squallidi.
Parallelamente, Mr. Renzi ha fatto promulgare una legge elettorale per la Camera che conferisce immenso potere a qualsiasi partito che ottenga una maggioranza relativa nella camera bassa. Utilizzando vari espedienti elettorali, ciò garantisce il comando al partito più grande con il 54% dei seggi. Il prossimo primo ministro avrebbe dunque per cinque anni un mandato quasi certo.
Questo potrebbe avere un senso, tranne per il fatto che lo sforzo per approvare le leggi non è il problema più grande per l’Italia.
Importanti misure, come la riforma elettorale, per esempio, possono essere votate già adesso. Infatti, il legislatore in Italia promulga tante leggi quanto fanno gli altri paesi europei. Se il potere esecutivo fosse la risposta al problema, la Francia sarebbe fiorente: ha un potente sistema presidenziale, eppure, come l’Italia, è perennemente resistente alle riforme.
Il rischio del disegno di Mr. Renzi sta nel fatto che il principale beneficiario sarà Beppe Grillo, un ex comico e leader del Movimento Cinque Stelle (M5S), una raffazzonata coalizione che vuole indire un referendum per uscire dall’euro.
Nei sondaggi compete a pochi punti dietro i democratici di Mr. Renzi e ha recentemente ottenuto il controllo di Roma e Torino. Lo spettro di Mr. Grillo come primo ministro, eletto da una minoranza e saldamente in carica grazie alle riforme di Mr. Renzi, sarebbe un evento che per molti italiani – e gran parte degli europei – troverebbero preoccupante.
Uno svantaggio di un voto che premi il NO sarebbe quello di rafforzare la convinzione che l’Italia non abbia mai la capacità di affrontare i suoi molteplici invalidanti problemi. Ma è Mr. Renzi che ha creato la crisi scommettendo sul futuro del suo governo su una erronea prova [di forza]. Gli italiani non dovrebbero essere ricattati. Mr. Renzi avrebbe fatto meglio a proporre riforme più strutturali su tutto, da quella nei confronti di una magistratura indolente al miglioramento dell’elefantiaco sistema d’istruzione [scolastica]. Mr. Renzi ha già sprecato quasi due anni sui ritocchi costituzionali. Quanto prima l’Italia torna a varare una vera riforma, tanto meglio è per l’Europa.
Basi deboli
Allora, in che cosa consisterebbe il rischio di disastro nel caso in cui il referendum fallisse? Le dimissioni di Mr. Renzi non possono essere la catastrofe che molti in Europa temono. L’Italia potrebbe mettere insieme un governo tecnico temporaneo, come fece molte volte in passato. Se, però, un referendum perduto dovesse davvero innescare il crollo dell’euro, allora sarebbe un segno che la moneta unica era così fragile e che la sua distruzione sarebbe solo una questione di tempo.
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