(di Lafayette)-
“Concentrazione” e “semplificazione” sono le due parole mantra che da tempo sono scolpite sulle tavole del pensiero economico liberista. L’una riguarda il mondo degli affari, l’altra s’inserisce prepotentemente nel dibattito inerente la revisione delle leggi costituzionali. Esse vengono subdolamente spacciate come i necessari paradigmi “liberal” atti a farci traghettare senza ostacoli nell’era della post-modernità. Tuttavia, in realtà questi due “comandamenti” sono dei veri cavalli di troia che nascondono il desiderio d’imporre da parte delle forze che costituiscono il corrente establishment – ormai con il fiato corto – l’aumento delle proprie prerogative di potere. Con il termine “concentrazione”, attraverso le sue economie di scala, ci fanno credere che l’offerta di mercato dei beni sarà per tutti noi consumatori enormemente vantaggiosa, celandoci nel contempo il loro vero obiettivo: la creazione di monopoli con la sua relativa nefasta conseguenza. Con la “semplificazione” ci inducono a presumere, che qualora si attuasse, i processi decisionali in una democrazia costituzionale saranno più rapidi, più efficienti e dai quali noi cittadini trarremo un sicuro giovamento. Ovviamente, essa occulta in modo astuto il loro reale traguardo: la deriva autocratica. Qualsiasi velata resistenza o rilevanza critica verso il dettato sostenuto dall’esercito dei semplificatori viene additata alla stregua di fastidiose e inutili rimostranze, se non addirittura cause della prossima apocalisse politica. Questa solenne duplice mistificazione (concentrazione – semplificazione) tradisce spudoratamente le tesi su cui si fonda l’autentico liberalismo politico: “la società come equo sistema di cooperazione”, “l’idea di concezione politica della giustizia”, “i poteri dei cittadini e la loro rappresentanza”, “l’idea della ragionevolezza rawlsiana”. Più che entrare nel merito delle singole tecnicalità normative, come suggeriscono alcuni distratti, sarebbe necessario ri-ancorarci ai principi che sottendono le forme di governo democratiche costituzionali in vista di quel temporale d’oltreoceano dalle scuri nubi, che avvicinandosi frettolosamente, porta con sé le saette lanciate da personaggi come Donald Trump, senza per altro sottovalutare il potenziale “rivoluzionario” del giacobinismo di casa nostra.
Monopoly’s New Era
by Joseph Stiglitz on 17 May 2016 @JosephEStiglitz
Per 200 anni, ci sono state due scuole di pensiero su ciò che determina la distribuzione del reddito e come l’economia funziona. L’una, che discende da Adam Smith e gli economisti liberali ottocenteschi, si focalizza sui mercati competitivi. L’altra, consapevole del fatto che il liberalismo di Smith porta a una rapida concentrazione della ricchezza e del reddito, prende come punto di partenza che i mercati senza vincoli tendano verso il monopolio. E’ importante capire entrambe perché le nostre opinioni sulle politiche di governo e le disuguaglianze esistenti sono modellate su quali delle due scuole di pensiero si crede che fornisca una migliore descrizione della realtà.
Secondo i liberali ottocenteschi e loro recenti seguaci, i mercati sono competitivi, quando i rendimenti degli individui sono legati ai loro contributi sociali, ossia, nel linguaggio degli economisti, al loro “prodotto marginale”. I capitalisti sono ricompensati per ciò che risparmiano anziché per ciò che consumano, si direbbe – per la loro “astinenza” – secondo le parole di Nassau senior, uno dei miei predecessori nella Drummond Professorship di Economia Politica a Oxford. Le differenze di reddito vennero allora correlate con la loro proprietà di “beni”: il capitale umano e quello finanziario. Quindi, gli studiosi della disuguaglianza si concentrarono sulle determinanti della distribuzione dei beni, compreso il modo in cui quest’ultimi vengono trasmessi attraverso le generazioni.
La seconda scuola di pensiero prende come punto di partenza il “potere”, compresa la possibilità di esercitare il controllo che deriva da politiche monopoliste o, nel caso del mercato del lavoro, per affermare la propria autorità sui lavoratori. Gli studiosi in questo campo si sono concentrati su ciò che dà origine al potere, come viene mantenuto e rafforzato, e le altre caratteristiche che possono impedire la competitività dei mercati. I lavori sullo sfruttamento derivante dalle asimmetrie informative ne è un esempio importante.
La scuola che fa riferimento al pensiero liberale ha dominato nell’Occidente successivo alla seconda guerra mondiale. Eppure, poiché la disuguaglianza si è ampliata e le preoccupazioni su di essa sono accresciute, la scuola competitiva, considerando i guadagni individuali in termini di prodotto marginale, è diventata sempre più incapace di spiegare in che modo funziona l’economia. Così, oggi, la seconda scuola di pensiero è in ascesa.
Dopo tutto, i grandi bonus pagati ai dirigenti delle banche, mentre portarono le loro imprese alla rovina e l’economia sull’orlo del collasso, sono difficili da conciliare con la convinzione che il compenso individuale abbia qualsiasi cosa a che fare con i loro contributi sociali. In modo ovvio, storicamente, l’oppressione dei grandi gruppi – gli schiavi, le donne e le minoranze di vario tipo – sono casi evidenti in cui le disuguaglianze sono il risultato di rapporti di forza, non di rendimenti marginali.
Nell’economia di oggi, molti settori – telecomunicazioni, TV via cavo, rami digitali; dai social media ai motori di ricerca su Internet; dall’assicurazione sanitaria, la farmaceutica, fino all’agro-business, e molti altri – non possono essere compresi attraverso la lente della concorrenza. In questi settori, l’esistenza della concorrenza è di tipo oligopolistico e non corrisponde alla “pura” competizione, illustrata nei libri di testo. Alcuni settori possono essere definiti come “price taking“; le imprese sono così piccole che non hanno alcun effetto sul prezzo di mercato. L’agricoltura è l’esempio più chiaro, ma l’intervento del governo nel settore è enorme, ed i prezzi non sono stabiliti principalmente dalle forze di mercato.
Il consiglio dei consulenti economici del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, guidato da Jason Furman, ha tentato di conteggiare l’entità dell’aumento della concentrazione del mercato e alcune delle sue implicazioni. Nella maggior parte delle industrie, secondo la CEA, le metriche standard mostrano grandi – e in alcuni casi, drammatici – aumenti della concentrazione del mercato. La quota di mercato dei depositi le prime dieci banche, ad esempio, è aumentata dal 20% circa al 50% in soli 30 anni nel periodo 1980-2010.
Alcuni incrementi del potere del mercato sono il risultato dei cambiamenti nella tecnologia e della struttura economica: prendiamo come esempio le economie di rete e la crescita delle industrie nel settore dei servizi forniti a livello locale. In alcuni casi ciò è dovuto a quelle imprese – la Microsoft e le aziende farmaceutiche sono dei buoni esempi – che hanno imparato meglio come esporre e mantenere le barriere d’ingresso, spesso assistite da forze politiche conservatrici che giustificano in modo indulgente l’applicazione della normativa antitrust e il fallimento delle azioni di contenimento del potere di mercato sulla base che essi sono “naturalmente” competitivi. Nell’esaminare l’incremento di potere del mercato si riflette lo sfrontato abuso di quest’ultimo e la sua leva di potere attraverso il processo politico: le grandi banche, per esempio, fanno un’azione di lobby presso il Congresso degli Stati Uniti per modificare o abrogare la legislazione che separa le banche commerciali da altre aree della finanza.
Le conseguenze sono evidenti nei dati, essendo la disuguaglianza in aumento a tutti i livelli, non solo tra gli individui, ma anche tra le imprese. Il rapporto CEA ha osservato che “i rendimenti sugli investimenti di capitale nel 90° percentile delle imprese sono più di cinque volte la mediana. Questo rapporto era più vicino a due solo un quarto di secolo fa.”
Joseph Schumpeter, uno dei più grandi economisti del ventesimo secolo, sostenne che non si dovrebbe essere preoccupati per il potere di monopolio: i monopoli sarebbe solo temporanei. Ci sarebbe una forte concorrenza a favore del mercato e questo dovrebbe sostituire la concorrenza nel mercato garantendo la competitività dei prezzi.
Molto tempo fa il mio lavoro teorico mostrò i difetti nella analisi di Schumpeter, e ora i risultati empirici forniscono una forte conferma. Oggi i mercati sono caratterizzati dalla persistenza di elevati profitti derivanti dal monopolio.
Le implicazioni riguardo a ciò sono profonde. Molte delle ipotesi inerenti le economie di mercato si basano sull’accettazione del modello competitivo, con rendimenti marginali commisurati ai contributi sociali. Questo punto di vista ha portato da parte degli interventi ufficiali a una certa esitazione. Se i mercati sono fondamentalmente efficiente ed equi, il migliore dei governi potrebbe fare poco per migliorare la situazione. Ma se i mercati si basano sullo sfruttamento, la logica del laissez-faire scompare. Infatti, in tal caso, la battaglia contro il potere radicato non è solo una battaglia per la democrazia; è anche una battaglia per l’efficienza e per una condivisa prosperità.
https://www.socialeurope.eu/2016/05/monopolys-new-era/
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