(di Gianluca Veronesi)-
L’ epidemia è stata apocalittica ma non è detto che sarà palingenetica.
Sento molto ottimismo in giro. Tutto cambierà, nulla sarà come prima.
Già, ma si può cambiare in peggio, succede spesso.
È probabile che molto sarà uguale a prima, leggermente più povero e più squallido.
Il virus, per ora, non ha travolto il nostro mondo, ha accelerato delle modifiche già in atto.
Le più note sono quelle tecnologiche, che hanno sempre da guadagnare quando si affronta una emergenza. Si scopre in quel momento che esistono strumenti adatti a superare gli ostacoli e che solo per pigrizia mentale non si sono ancora adottati.
L’unico stimolo ad una vera modifica di mentalità, l’unica reale chiave di innovazione che vedo è la salute.
Non vedo certamente all’orizzonte un’autocritica dell’economia e, ancor meno, una crisi di coscienza della finanza (al massimo può inventare nuovi derivati e “future” che scommettano sulla prossima pandemia).
Anzi la finanza può essere un ostacolo alla ripartenza se si dedicherà solo al gioco speculativo e ribassista, se si limiterà a disfarsi dei titoli dei Paesi e delle aziende in difficoltà.
L’economia mondiale è nelle mani di pochissimi che guadagnano tantissimo, perché dovrebbero cambiare? Per di più sono i padroni di quel progresso tecnologico che esce rinvigorito dalla crisi.
Il paradosso è che la globalizzazione, invece di moltiplicare i luoghi decisionali e ridistribuire il potere, ha provveduto a concentrarlo ulteriormente nelle mani delle poche aziende a dimensione planetaria.
Certo, si sono aggiunti una manciata di nuovi protagonisti -gli azionisti della Amazon cinese e gli amministratori della Bank of China- ma solo fino a quando il Partito Comunista sarà soddisfatto di loro.
Si dice in giro: le disuguaglianze hanno raggiunto livelli ormai scandalosi e inaccettabili che non potranno permanere. Ma il senso di ingiustizia lo provi quando è possibile una comparazione, l’esprimersi di una qualche forma di invidia sociale.
Cosa impossibile con questi signori, questi padroni dell’universo che vivono in assoluto anonimato, in un mondo parallelo che non incrocia mai la vita degli altri. Posseggono ovunque dimore inaccessibili, (non)pagano le tasse in paradisi fiscali, viaggiano con aerei privati, anche al ristorante non puoi incontrarli perché dovresti prenotarti con mesi di anticipo.
Tolti i calciatori e le rockstar, degli altri non conosci neanche l’esistenza.
D’altronde è impossibile per chiunque sapere quanto guadagnano, visto che vengono retribuiti con un mix di azioni, benefit, premi di risultato, e dove lo stipendio -sebbene milionario- è la voce più modesta.
Ma la salute può essere la molla vera di una nuova terapia per il Paese.
Non è che fino ad oggi l’abbiamo trascurata ma ciascuno l’ha affrontata individualmente, sempre all’inseguimento dei sintomi del malessere, alla rincorsa della malattia ormai conclamata.
Oggi la medicina ha una forza dirompente perché ha dimostrato che siamo tutti correlati e interdipendenti. Ci vede tutti impreparati, spaventati, e in balia degli eventi. Nessuno può considerarsi sicuro e protetto.
Andiamo per gradi.
Intanto il nostro SSN, sistema sanitario nazionale, ha dimostrato una buona tenuta. L’ordine medico, continuamente vilipeso e giudiziariamente denunciato dal populismo internettiano, ritrova -a caro prezzo- una autorevolezza perduta.
Si è capito che le imprescindibili attrezzature tecnologiche non possono fare a meno delle donne e degli uomini, medici e infermieri.
Già nel modello in corso mancavano migliaia di unità; dovendo ora investire molto di più sulla medicina territoriale, sarà necessario rivedere tutto il sistema dei numeri chiusi e dell’accesso alle specialità.
Ma dove la discontinuità potrà essere enorme è sulla politica dell’ambiente. Tutti hanno finalmente capito lo stretto collegamento tra qualità dell’ambiente circostante e stato di salute.
Non sarà un caso che le aree di maggior contagio siano quelle più industrializzate e più inquinate, dove le difficoltà respiratorie e polmonari trovano già un terreno fertile, che viene da lontano.
Nessuna persona ragionevole può credere alla decrescita felice. Ma a un modello di sviluppo -e sottolineo sviluppo- più sensato e salubre si’.
Questo vale anche per la nostra vera industria nazionale: il turismo. Che ha raggiunto un’importanza strategica senza però farsi scrupoli ad assaltare ambienti protetti, a distruggere territori incontaminati, a sfruttare in modo famelico risorse scarse e difficilmente rinnovabili (Venezia è solo l’esempio più macroscopico).
Nessun fondamentalismo verde ma una rilettura colta e rispettosa della nostra storia nazionale, una ricerca approfondita delle nostre radici estetiche, non una ottusa e burocratica “tutela” ma una moderna valorizzazione del nostro territorio, soprattutto di quello ancora sconosciuto.
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