(by lafayette)-
Solo fino al marzo scorso, corrispondendo, dialogando a viva voce con alcuni miei cari amici inglesi, ascoltando le news della BBC, nonché visionando quasi giornalmente la stampa britannica, coltivai la certezza che la Brexit fosse molto lontana dal realizzarsi. Il referendum del 23 giugno avrebbe sì diviso gli animi in Gran Bretagna, ma non così tanto da creare una lancinante seconda Glorious Revolution. Purtroppo o per fortuna, a seconda delle convinzioni, l’umore dell’opinione pubblica britannica da maggio in poi si fece più enigmatico. Iniziò a ravvisarsi nelle sue pieghe una tendenza isolazionistica nella quale non si poteva escludere il carsico contributo della componente più radicale e operaia del Labour Party.
Jeremy Corbyn, l’attuale leader del Labour, la cui storia politica è costellata da dichiarazioni salaci nei confronti del centralismo di Bruxelles[1], si rassegnò giocoforza a emendare il suo passato dichiarandosi pubblicamente “pro-European” e impegnando altresì il partito in una campagna per la permanenza della UK nella UE. Tuttavia, la sua presa di posizione fu giudicata da molti commentatori assai tiepida, figlia – secondo taluni – di quel tatticismo di sinistra che evita con accuratezza di rompere i suoi fragili equilibri interni. Corbyn, sebbene ad obtorto collo, cedette sia nei confronti della base elettiva più giovane del partito – che fu il suo principale driver vincente nel contest di settembre – sia verso la componente di destra ex-blariana, le cui voci sono inclini a considerare l’Europa un’opportunità piuttosto che un impiccio. Sennonché, non tutto il Labour si convinse che ciò fosse la scelta verso cui correre a braccia aperte. Infatti, l’iniziale timidezza dei brexiteers di sinistra con l’andare del tempo si è trasformata nel coraggio dell’eterodossia, fino al punto d’esporre pubblicamente più volte un dichiarato antagonismo filo europeo sulla stampa di fede partigiana.[2]
I sondaggisti inglesi, sebbene con estrema cautela – dopo le errate previsioni riguardanti le scorse elezioni – hanno cominciato a fiutare qualcosa di anomalo e non del tutto corrispondente alla rassicurante narrativa divulgata dalle più importanti testate giornalistiche britanniche[3]. Che cosa sta accadendo? Per alcune ragioni facilmente intuibili un cittadino inglese è maggiormente interessato all’evolversi delle primarie americane più di quanto lo sia un suo pari continentale. Il duplice opposto effetto Trump/Sanders ci sta mostrando che negli USA è in corso il consolidamento di una forte tensione anti-establishment, le cui cause non sono molto dissimili da quelle che si verificarono in Gran Bretagna nel 2011. Se l’influenza legittimista e identitaria Old Tory, unita all’eurofobia dell’UKIP (illustrata secondo la nefasta sequenza: austerità-disoccupazione Sud Europa-immigrazione) da sole, benché consistenti in alcune aree del paese, non sarebbero mai riuscite a distrarre la maggioranza degli inglesi nei confronti della UE. Ora, la montante rabbia antisistema, mutuata principalmente dall’esempio americano (ma non solo), gioca un ruolo assai più pervasivo. Si ha l’impressione che l’attuale nemico dei “leavers” non sia più l’Europa, bensì la potente élite di Londra e di Bruxelles. Cresce nel paese, soprattutto nelle classi meno agiate, un sentimento di frustrazione nei confronti di coloro i quali anziché proteggerli li hanno in primis raggirati e poi scaricati decurtandoli di quel sistema di garanzie sociali a cui rinunciarono con la promessa di godere una maggior libertà economica, nonché di un ridotto peso fiscale. I brexiteers considerano sé stessi come parte di una rivolta popolare contro l’establishment. Questo sentimento, presente in una parte del voto Labour, è amplificato dal fatto che la campagna europeista “Britain Stronger in Europe” sia finanziata dalla alta finanza: Goldman Sachs, JP Morgan e numerose banche.
Difficile fare delle ipotesi sul risultato del referendum, sebbene i bookmakers lo conteggino pro Europa ¼, Leicester permettendo! Resta il fatto che non si può dare nulla per scontato, poiché le sorprese oggigiorno possono essere “round the corner”[4]. Se accadesse ciò, tutta la politica dell’Eurozona verrebbe rimessa in gioco a tal punto che il nostro accapigliante dibattito sulle riforme istituzionali nel voluminoso “libro” inerente la storia europea non troverebbe altro posto che una semplice nota a piè pagina.
[4] http://www.newstatesman.com/politics/elections/2016/05/britain-about-leave-european-union
[1] http://www.newyorker.com/magazine/2016/05/23/the-astonishing-rise-of-jeremy-corbyn?mbid=social_facebook
[2] http://www.newstatesman.com/politics/2015/06/john-king-left-wing-case-leaving-eu
[3] http://www.newstatesman.com/politics/staggers/2016/05/polls-appear-positive-remain-below-surface-picture-less-rosy
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