(di Luciano Fasano- Arcipelago)-
Il 24 novembre 2015, all’indomani degli attentati di Parigi del 13 novembre, i Musei Capitolini di Roma, dove nel 1957 si firmarono i Trattati di fondazione della Comunità europea, ospitarono una conferenza stampa del governo italiano, durante la quale il Presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi, affermava che la risposta al terrorismo fondamentalista islamico dovesse essere al tempo stesso di sicurezza e culturale. “Per ogni euro investito in più in sicurezza ci deve essere un euro in più investito in cultura”: era questa la risposta data dall’Italia al fatto che “i terroristi di queste ore sono cittadini europei, cresciuti nelle nostre città, diventati uomini in grado di odiare senza che facessimo in tempo ad accorgercene”. In questo modo, il governo sceglieva di combattere il terrorismo anzitutto a partire dalla difesa dei principi di libertà e della cultura propri del mondo occidentale.
L’altro ieri, il 26 gennaio 2016, a distanza di due mesi, quelle stesse sale dei Musei Capitolini venivano oltraggiate da un intervento oscurantista predisposto per la visita in Italia del Presidente dell’Iran Hassan Rouhani. Una decina di capolavori ospitati in quelle sale – fra i quali la Venere Capitolina, la Leda con il cigno, il Dioniso degli Horti Lamiani, l’Ephedrismos – venivano sottratte alla vista attraverso la copertura con pannelli di compensato, affinché le nudità in esse raffigurate non fossero di imbarazzo per l’illustre ospite mediorientale.
Non poteva esserci modo migliore per smentire con i fatti la giusta intuizione di due mesi prima sulla natura anzitutto culturale della lotta contro il terrorismo fondamentalista islamico, nello stesso luogo che si era scelto a simbolo dell’identità europea per rispondere ai brutali attentati di Parigi esaltando le libertà e la cultura proprie della tradizione occidentale. A meno che l’euro “investito in cultura” per ogni euro investito in sicurezza fosse destinato ai pannelli di compensato messi tristemente in scena ai Musei Capitolini in queste ore.
Il Presidente del consiglio, e con lui il Ministro per i Beni e le Attività culturali, Dario Franceschini, ha tempestivamente precisato di essere “indignato” per quanto accaduto e di non avere alcuna responsabilità in proposito. Anche se immagini e video che riprendevano la presenza di imbarazzanti imbracature bianche nei corridoi dei Musei Capitolini erano circolate sui siti di alcuni grandi quotidiani di informazione già qualche giorno prima. E risulta quindi assai difficile ritenere che la Presidenza del Consiglio e il Ministero dei Beni e delle Attività culturali non ne fossero informati. E’ stato del resto lo stesso Cerimoniale di Palazzo Chigi, a seguito di una serie accurata di sopralluoghi, a realizzare questo intervento censorio dietro sollecitazione della delegazione governativa iraniana.
Ma al di là dell’imbarazzante e inopportuno scaricabarile fra premier, ministro, Cerimoniale e Sovrintendenza alle Belle arti, e a prescindere della stridente contraddizione fra le dichiarazioni del 23 novembre e i fatti del 26 gennaio, ciò che genera disappunto e lascia amareggiati è il pericoloso quanto drammatico vuoto culturale che emerge da un incomprensibile episodio, dietro al quale si manifesta anche una scarsa consapevolezza di come la lotta verso il terrorismo, e contro il fondamentalismo religioso dal quale esso trae origine, riguardi principalmente il tema della modernità.
Soltanto una società che non comprende come il più importante prodotto della modernità risieda nella distinzione fra politica e religione e nel principio liberale di “non interferenza” della seconda nella prima, può accettare che sia messo il “velo” (in questo caso, di compensato!) all’arte. Un opera d’arte, dal momento in cui viene licenziata da chi l’ha prodotta e sottoposta al giudizio estetico di chi la osserva, diviene un oggetto di dominio pubblico. Libera espressione creativa che può indurre giudizi estetici positivi o negativi, di apprezzamento o di critica, ma che non può essere censurata per via di un’incompatibilità di natura religiosa. Perché in una società moderna, fondata sui principi della liberal-democrazia, i precetti religiosi non possono considerarsi criteri di scelta validi per tutti. La differenziazione sociale e il pluralismo politico delle nostre società fanno sì che i credo religiosi siano molteplici. Ma nessuna religione, nella società moderna, determina per ciò stesso i contenuti del diritto e delle leggi. A differenza di quanto accade nelle società tradizionali, come quelle del mondo arabo, dove fra politica e religione non esiste alcuna distinzione. E dove la religione diventa instrumentum regni, strumento di politica e di governo, stabilendo le regole fondamentali (e vincolanti) su cui si fonda la comunità.
In questa differenza risiede il cuore del conflitto fra il fondamentalismo religioso, con le sue derivazioni terroristiche, e le nostre democrazie, fondate sulla libertà e la tolleranza. Una differenza in cui si rispecchia la stessa distinzione fra politica e religione che contraddistingue la società moderna. Comprenderlo significa sapere su quale terreno si gioca il futuro della democrazia occidentale e europea. Oscurare le statue dei Musei Capitolini, per non dispiacere al capo di governo di un regime teocratico, vuol dire non aver capito nulla, nonostante gli annunci di due mesi fa. Ma del resto, si sa: fra il dire e ilfare …
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