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Una voce non ipocrita. Evviva! Il re è sempre più nudo!

2 Gennaio 2013 by Redazione Lascia un commento

Da: Jak’s Blog, di Giacomo Salerno 01/01/13

Ci siamo raccontati tre favole. Per convincerci che il Continente fosse unito. Ma perché lo sia davvero serve un referendum che faccia parlare i popoli

SPERIAMO CHE SIA EUROPA

DI LUCIO CARACCIOLO

Europa sì Europa no? Dopo secoli di guerre cruente tra regni e paesi la democrazia ora ha solo guerre finanziarie: morti invisibili.
Vedi alla voce Europa. E non trovi nulla perché trovi tutto. La sfera semantica della parola “Europa” s’è allargata fino a perdere ogni contorno. Si offre dunque come strumento di politiche le più varie, spesso opposte, quasi mai coerenti, sempre vaghe. Così scadendo a facile oggetto di demonizzazione, a capro espiatorio dei nostri patemi e delle nostre incertezze. Non un progetto, il suo contrario: lo schiacciamento dell’orizzonte che corrode l’obiettivo della politica, cioè costruire una comunità. E la noia di ripetere all’infinito lo stesso frasario apotropaico. Che cosa vuol dire, su questo sfondo, essere “europeista”? E che cosa significa rappresentarsi – o bollare l’altro – come “euroscettico” se non “antieuropeo”? In assenza di una definizione del termine “Europa”, tali etichette esprimono al meglio un’intenzione polemica. Non spiegano nulla. Non indicano nessuna mèta, nessun percorso che non sia fine a se stesso. Come siamo giunti a tanto? Per azzardare una risposta, conviene accennare alle tappe decisive della parabola europeista. Per scoprire che quanto amiamo raccontarci nelle cerimonie ufficiali, al suono dell’Inno alla Gioia in versione pop e fra lo sventolio delle stellate bandiere gialloblù, non ha molto a che vedere con i dati di realtà. Proviamo a indagare le cause dell’assenza di un progetto europeo sondando la consistenza di tre miti cari alle oleografie brussellesi. E che, a ben guardare, sono favole.

Favola prima: il progetto dei padri fondatori 
Schuman, De Gasperi, Monnet, Spinelli, Spaak, Adenauer… La galleria dei Padri fondatori non manca di personalità illustri. Impossibile sfuggire a un impeto di nostalgia, ricordandone la caratura politica e culturale, a petto dei correnti epigoni. Ma ciò che oggi chiamiamo Unione europea è davvero figlio loro? Secondo la favola, sì. La storia ci racconta altro. Se vogliamo restare alla metafora familiare, converrebbe dire che l’Ue, più che figlia di quei numi, ne è nipote. Perché i Padri nulla avrebbero potuto senza lo Zio d’America: Harry Truman. Il presidente della vittoria degli Stati Uniti nella guerra che completa l’autodistruzione delle potenze europee, scattata con il colpo di pistola di Sarajevo, e inaugura la stagione della contrapposizione Ovest-Est, liberalismo-comunismo, economia di mercato-economia di piano. In due parole: Bene/Male. Una nuova èra, nella quale gli europei occidentali salvati dall’America sono invitati a smettere i vetusti panni coloniali per sbarrare insieme la via dell’Atlantico all’Armata Rossa. È dalla guerra fredda, dalla sua logica binaria, che scaturiscono le prime Comunità europee. Esse sono e intendono essere occidentali. A Roma nel 1957 si battezza una Comunità che è la faccia economico-europea di una strategia americana avviata con il Piano Marshall (1947) e strutturata militarmente nella Nato, braccio armato del Patto Atlantico (1949). I due pilastri che testimoniano e sigillano l’impegno degli Stati Uniti a difendere l’Europa occidentale dalla minaccia sovietico-comunista. Lo spazio Cee è scavato in quello Nato, tanto che nel tempo i due insiemi finiranno quasi per condividere gli stessi confini. La ratio comunitaria è la crescita economica e il benessere comune di ciò che residua delle potenze continentali, incardinandole nel campo delle democrazie alleate, protette e largamente eterodirette dagli Stati Uniti. Cardine di tale assetto è la pacificazione franco-tedesca. Nient’affatto spontaneo riconoscimento reciproco di una comunità di destino, come vorrebbe la favola. Anzi, vincolo imposto e presto felicemente assimilato (più superficialmente di quanto ancora oggi ammettano le élite francesi e tedesche) sotto il rassicurante ombrello a stelle e strisce. Il Reno si restringe. Certo in memoria delle inutili stragi della prima metà del Novecento. Ma soprattutto in vista della sfida con l’Unione Sovietica e con la sua Europa, quella del Patto di Varsavia/Comecon. Una logica di guerra. Per fortuna evitata, ma cogente e permanente fino al fatidico 1989. Dunque la prima Europa, quella del miracolo economico, della rinascita spirituale e culturale dagli orrori del fascismo italiano, del nazismo tedesco e del collaborazionismo francese, ha senso in quanto parte dell’architettura occidentale voluta da Washington. Peccato che nei Palazzi dell’eurocrazia si tenda oggi a dimenticarlo. Onestà e rigore storico vorrebbero che nel cuore di Bruxelles venisse eretta una statua in memoria di Truman. Per completezza, anche di Stalin. Senza contrapposizione Est-Ovest, niente Europa dei Sei. Ossia dell’Ovest.

Favola seconda: la caduta del Muro ci ha uniti 
Se non ci fossimo raccontati la prima favola, avremmo evitato di credere alla seconda. Ossia all’idea che la riunificazione della Germania, la liquidazione dell’impero sovietico e il suicidio dell’Urss avrebbero riunito il continente. Non è stato così. Anzi, la fine della contrapposizione Est-Ovest ha riportato in evidenza le diverse prospettive e i diversi interessi economici e geopolitici non solo fra l’ex Est e il fu Ovest, ma financo al loro interno. Mancando la pressione della minaccia comunista/sovietica lo spazio europeo non appare più agli americani come prioritario. Risultato: noi europei siamo liberi di tornare a essere noi stessi, ossia popoli ed entità statuali o substatuali orgogliosi delle proprie effettive o presunte peculiarità storico-culturali. Dagli anni Novanta a oggi è un fiorire di festival localisti o regionalisti, di “popoli senza Stato” che vogliono darsene uno (scozzesi, catalani, baschi) o inventarlo di sana pianta (i nostri padani), in nome dei rispettivi “diritti storici”. La crisi economica degli ultimi cinque anni, di cui non si vede la fine, esaspera paure ed egoismi, non favorisce la cooperazione e nemmeno la comprensione delle ragioni altrui. Anche se questo “altrui” è socio del medesimo club europeo. Per informazioni rivolgersi ad Atene. L’effetto meno visibile ma più devastante del 1989 è stato e resta la riscoperta, prima a Parigi, poi a Berlino e quindi ovunque nel Vecchio Continente, di antiche reciproche fobie o almeno insofferenze che hanno finito per spegnere il cosiddetto “motore” europeo. Valga per tutti il caso dell’euro: un’idea francese (e italiana) per sottrarre ai tedeschi il marco, marchio dell’egemonia economica nel continente. Una sorta di “riparazione” in stile versagliese per aver osato abbattere il Muro, che nel tempo i tedeschi hanno saputo volgere in strumento per assoggettare i recalcitranti francesi al primato della Germania, potenza incompleta ma sempre più mondiale e sempre meno europea. Se vogliamo datare l’inizio della fine di un sia pur vago orizzonte comune europeo, conviene dunque scegliere il 1989. Proprio l’anno che invece, nella mitologia ufficiale, segna la “riunificazione dell’Europa”. (Sarebbe utile, al riguardo, comunicarci quando fummo uniti).

Favola terza: siamo accomunati dallo stesso destino
La terza narrazione ci ricorda che, piaccia o non piaccia, noi soci del club europeo siamo nella stessa barca. Quando finalmente ce ne accorgeremo, inevitabilmente riprenderemo a remare dalla stessa parte. Questa litania europeista scambia il desiderio con le tendenze in atto. Nella sua forma radicale, arriva a celebrare la crisi in corso come premessa utile alla costruzione di una peraltro indeterminata “unità politica”. Non c’è discorso della domenica in cui ci venga risparmiato il riferimento all’equazione cinese “crisi=rischio e opportunità”, con accento sul terzo termine. Superficiale manipolazione della cultura mandarina a parte, resta che dalla crisi, almeno finora, sono germinati rischi in quantità, con le relative paure, sospetti e diffidenze reciproche, fino alla riscoperta dei “caratteri nazionali”: i greci tutti truffatori, i tedeschi tutti egoisti quando non nazisti, tutti gli italiani inaffidabili e via delirando. Di opportunità gli europei ne vedono poche. E se ci sono, non le colgono. Vogliamo sperare che presto ci ravvederemo e riscopriremo le ragioni profonde, non occasionali, del nostro essere europei. Anche se fosse, scoprirlo a un centimetro dalle cateratte non è come stabilirlo quando le acque scorrono tranquille. Invertire la rotta è possibile. Ma ogni giorno di crisi che passa è più difficile. E più costoso. Sotto ogni profilo.

Che fare? 
La storia non insegna nulla, salvo a non fare previsioni. Concepire un destino già scritto per noi significa sognare o, al contrario, cadere vittime dei nostri incubi. Se dovessimo estrapolare linearmente dalle tendenze in vigore, tutto potremmo descrivere tranne che una futura unità politica europea, quali ne fossero i confini. Se dovessimo estrarre una lezione dalla vicenda europeista, sarebbe che al momento di scegliere cadiamo comunque vittime di pregiudizi ed egoismi che bloccano ogni slancio. Niente da fare, dunque? Non esattamente. Proprio perché dire Europa non significa nulla, prima di decretare la morte presunta di un’idea occorrerebbe provare a definirla. Quindi: coloro che puntano davvero a un’entità politica europea, e non solo a un insieme di funzioni variamente attribuite a una Europa identificata con Berlino, senza legittimazione né effettivo controllo democratico, si facciano avanti e ci spieghino ciò che vogliono costruire: se Stato europeo dev’essere, in quali confini e con quali fini? Fondato su quali istituzioni? Dopodiché sottopongano il progetto alla sanzione popolare, fra tutti i cittadini degli Stati europei, o almeno di quelli che sono interessati a scandagliarlo. A domanda risponderemo: sì o no. I paesi del sì, se ce ne saranno (probabilmente più di quanto si pensi correntemente), potranno avviare l’integrazione; quelli del no, fra cui sicuramente sarà il Regno Unito, si dedicheranno a coltivare il proprio orto, si spera in cooperazione con il nuovo Stato Europa. Un’idea forse troppo semplice per gli “europeisti” di oggi, così affezionati al non-dibattito che ne perpetua la ragion d’essere. Una prospettiva da non scartare per coloro che si sono stancati di sentir parlare d’Europa e vorrebbero infine farla per davvero.

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