(di Gustavo Zagrebelsky- da http://www.lastampa.it/)- Che la magistratura abbia esorbitato dal suo ruolo, assoggettando la politica e impedendole di svolgere il suo, è ormai quasi un luogo comune, che nemmeno deve essere esplicitato, tanto è acquisito. Il corollario è che un potere democraticamente legittimato sarebbe sotto il tallone di un potere burocratico (con tutto il carico negativo che il termine porta con sé in Italia). Crisi della democrazia, quindi, e bisogno di un «riequilibrio». Lo si pretende nell’affanno di casi eclatanti, ma lo si cerca anche in sedi meno occasionali, studiando artifizi legislativi o costituzionali. Disinformazione, ingenuità, cattive intenzioni si mescolano a riflessioni serie, nel commentare un fenomeno che è italiano solo in alcuni aspetti, ma che nel profondo è da tempo caratteristico delle società democratiche occidentali. Il crescente ruolo del potere giudiziario è studiato da decenni, inizialmente in ambito anglosassone. La causa originaria del fenomeno non si trova banalmente nell’arroganza di un giudice o di un pubblico ministero, oppure nelle pretese corporative di un ceto professionale, ma piuttosto nell’indebolirsi strutturale dell’azione politica. I luoghi e le persone della politica mostrano sempre minor capacità di fare ciò che loro in teoria apparterrebbe, effettuando scelte tra programmi e valori diversi, così guidando la vita e l’evoluzione della società. Gli esempi sono infiniti. Per l’Italia è certo l‘intervento della magistratura penale a fornire le maggiori occasioni di tensioni e proteste. Ma quanti processi penali nascono perché, per negligenza o connivenza, i controlli amministrativi, che fanno capo ad autorità politiche, non sono stati attivati preventivamente? L’irruzione della magistratura penale nella vicenda dell’Ilva, con le sue rigidezze, ne è esempio evidente. E le radici di «Mani pulite» con le sue conseguenze, non stanno forse nella massiccia corruzione di partiti e uomini politici, che si espandeva senza contromisure politiche?
Ma ciò di cui stiamo parlando va oltre l’area penale. Basta ricordare la vicenda della legislazione sul fine-vita. Sull’onda della morte di Eluana Englaro, l’orgoglio del nostro Parlamento l’ha spinto addirittura a sollevare davanti alla Corte Costituzionale un conflitto tra poteri dello Stato contro la Cassazione, che, decidendo un ricorso, avrebbe espropriato il legislatore della sua competenza. Cosa ne è seguito? La tesi del Parlamento è stata respinta, il Parlamento dal 2009 a oggi non è stato in grado di approvare una legge e la magistratura intanto dovrà ancora esaminare e decidere i ricorsi che le saranno presentati. Poiché la vita continua e la morte continua a porre problema.
In realtà la politica e il Parlamento, che ne è il luogo massimo, devono prendere atto della difficoltà di operare in società pluralistiche, ove visioni del mondo diverse si contrappongono legittimamente, interessi di gruppi si confrontano e diritti delle minoranze si oppongono alla pretesa di una risolutiva egemonia della maggioranza. Il principio contro-maggioritario entra in gioco in aree sempre più vaste, restringendo l’ambito di strumenti che, come la legge, pretendono di essere generali e astratti. Le norme si frazionano e le decisioni caso per caso si fanno frequenti e necessarie. Così i temi «divisivi», anche oltre l’area dell’eticamente sensibile, sono abbandonati. La politica dimentica le sue orgogliose rivendicazioni e rimane paralizzata. Ma la realtà continua a produrre controversie individuali, presentate ai giudici che le devono decidere.
La questione riguarda l’assetto dei poteri pubblici e la loro evoluzione storica. Non può essere affrontata ragionando per categorie generali, attribuendo all’una o all’altra l’inadeguatezza o la devianza di questo o quel magistrato oppure di questo o quel personaggio o partito politico. Ci sono anche queste, naturalmente, sotto gli occhi di tutti. Un fenomeno strutturale merita però una ricostruzione che prescinda da casi singoli. Questi non sono irrilevanti, ma sono casi di cui occorre discutere la significatività, la capacità esplicativa del fenomeno.
Vorrei proporre due esempi di debolezza – meglio dire di abdicazione – della politica, che trasferisce potere e responsabilità ai giudici, salvo poi aggredirli per le conseguenze che ne derivano. Il primo esempio è italiano e attuale, in corso di svolgimento. Vediamo le manovre e le strategie, da più parti immaginate per dilazionare nel tempo una decisione del Senato sulla decadenza di Berlusconi, che la legge dice dover essere «immediata», dopo la condanna per frode fiscale che ha riportato. Bloccata la deliberazione della Giunta delle elezioni sulla proposta che deve fare al Senato, la legge Severino sulla decadenza dei condannati dal Parlamento, rimarrebbe in sospeso. Tuttavia giungerà necessariamente tra poco la decisione giudiziaria sull’interdizione dai pubblici uffici: decisione obbligata per legge, salva la determinazione della durata. Berlusconi decadrebbe quindi in forza della sentenza e non per la deliberazione del Senato. Nessuna forza politica assumerebbe la responsabilità dell’applicazione della legge a Berlusconi e, almeno per un po’ tornerebbe a regnare una seppur coatta armonia. La decadenza sarebbe opera (colpa) della magistratura. Il golpe giudiziario sarebbe denunziato, la soggezione della politica alla magistratura sarebbe lamentata (ad alta o a bassa voce, con lo stile di ciascuno), la Politica si terrebbe al riparo. Naturalmente in una vicenda come questa, gli intendimenti, i protagonisti e i responsabili sono numerosi; l’attribuzione di responsabilità alla magistratura invece che alle scelte operate dalle sedi politiche, può non essere l’interesse principale, ma per così dire un effetto collaterale. Le conseguenze sono però significative quando è posta la questione del rapporto tra magistratura e politica.
Sembra ora che le forze politiche si siano schierate con chiarezza sulle loro posizioni in vista del voto sulla proposta che farà la Giunta e poi del voto in aula del Senato. Ma la storia è in pieno sviluppo e resta comunque emblematica del problema della coerenza della politica, che chiede rispetto per la propria funzione e le proprie prerogative, ma troppo spesso cerca di evitare di assumere le responsabilità che ne derivano, lasciandole ad altri.
Il secondo esempio è di ambito europeo, a dimostrazione della natura del fenomeno. Nel sistema di protezione dei diritti umani in Europa l’organo che deve sorvegliare l’esecuzione da parte degli Stati delle sentenze della Corte europea dei diritti umani, è un consesso politico, il Comitato dei ministri degli Esteri dei Paesi membri del Consiglio d’Europa. Politicamente incapace di imporsi agli Stati e di costringerli ad adottare le riforme che impedirebbero continue violazioni di diritti fondamentali, da qualche tempo il Comitato ha preso atto della propria insufficienza e ha chiesto alla Corte – ai giudici, quindi – di indicare essa stessa nelle sentenze le riforme e i provvedimenti (spesso altamente politici) che gli Stati devono introdurre nel loro sistema. E’ più che discutibile che la Corte abbia le conoscenze necessarie e che il suo modo di agire giudiziario sia adeguato al nuovo ruolo, ma quel che conta qui è l’esempio delle dimissioni di un organo politico. L’effetto è quello noto: le polemiche si trasferiscono sulle decisioni dei giudici, i politici ne rimangono al riparo e, alzando gli occhi al cielo, indirizzano verso di loro le proteste.
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